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L’omelia del vescovo Gualtiero nella solennità dell’Assunta

Nel “meriggio” dell’estate cade la solennità dell’Assunta, la più antica celebrazione in onore della Beata Vergine Maria, “una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle” (Ap 12,1). Si tratta di un appuntamento molto caro al popolo cristiano, in particolare a quello orvietano, che ha intitolato il Duomo a Colei che il Signore ha esaltato quale Regina dell’universo. È una festa che invita a invocare Maria come “primizia della Chiesa celeste” e a considerare il termine ultimo della nostra avventura terrena, elevata verso mete che stanno ben oltre ogni umana attesa.

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L’omelia del Vescovo Gualtiero per la veglia di Pentecoste

La liturgia racchiude la celebrazione della Pasqua nel tempo sacro dei cinquanta giorni: la solennità di Pentecoste porta a compimento il mistero pasquale. Questa Messa vespertina nella vigilia, calibrata sullo stile della Veglia pasquale, ci invita ad ascoltare la parola di Dio con cuore disponibile, oltre che sereno, e ci chiede di domandare al Signore, “mediatore e garante della perenne effusione dello Spirito”, di concedere alla sua Chiesa di “essere sempre fedele alla vocazione di popolo radunato dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, per manifestarsi al mondo come sacramento di santità e di comunione”.

Come nell’antica Alleanza Dio si è rivelato a Mosè nel fuoco, sulla santa montagna del Sinai, così nella nuova Alleanza Egli si è manifestato a Maria e agli apostoli nella fiamma dello Spirito, che “rinnova anche oggi nel cuore dei credenti i prodigi operati agli inizi della predicazione del Vangelo”. “Tornare alla Chiesa delle origini – avverte Papa Francesco – non significa guardare all’indietro per copiare il modello ecclesiale della prima comunità cristiana. Non possiamo saltare la storia, come se il Signore non avesse parlato e operato grandi cose anche nella vita della Chiesa dei secoli successivi. Non significa nemmeno essere troppo idealisti, immaginando che in quella comunità non ci fossero difficoltà (…). Piuttosto, tornare alle origini significa recuperare lo spirito della prima comunità cristiana, cioè ritornare al cuore e riscoprire il centro della fede: la relazione con Gesù e l’annuncio del suo Vangelo al mondo intero. E questo è l’essenziale!”.

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L’omelia del vescovo Gualtiero per la Santa Messa nella festa di San Marco Evangelista e nella ricorrenza dei 40 anni del rogo del Vignola a Todi

All’indomani dell’ottava di Pasqua celebriamo la festa di San Marco, il discepolo prediletto di Pietro a cui la tradizione attribuisce il Libro dei Vangeli che riecheggia la predicazione del pescatore di Galilea, primo fra gli apostoli a confessare la fede nel Cristo. Abbiamo appena ascoltato la parte conclusiva dell’ultimo capitolo del Vangelo scritto dall’Evangelista che oggi festeggiamo. Gesù, dopo aver conferito il mandato missionario agli Undici, accenna sia ai segni che accompagneranno quelli che credono, sia ai segni che confermeranno la Parola annunciata dai discepoli, testimoni della sua Risurrezione.

L’apostolo Pietro che, come abbiamo inteso nella prima lettura, chiama Marco “Figlio mio” (1Pt 5,13), ci ha invitato a rivestirci di umiltà, “perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili” (1Pt 5,5). Quello dell’umiltà è un abito che riesce a indossare solo chi porta la taglia della sobrietà, che educa ad abbandonarsi alla fedeltà di Dio, riversando in Lui ogni preoccupazione, perché Egli ha cura di noi e non permette che il nemico, il diavolo, ci divori. Sebbene sia un “leone ruggente”, tuttavia noi abbiamo per grazia la forza di resistergli saldi nella fede; pertanto, non siamo noi a dover scappare ma è lui che è costretto a fuggire.

“Il Dio di ogni grazia – assicura l’apostolo Pietro –, dopo che avrete un poco sofferto, vi ristabilirà, vi confermerà, vi rafforzerà, vi darà solide fondamenta” (1Pt 5,10). Queste parole ci vengono in soccorso, oggi, a quarant’anni da quel mattino di una fredda domenica di aprile in cui fu avvistata dalla periferia e dai paesi attorno a Todi una colonna di fumo levarsi sopra la città. All’interno del Palazzo del Vignola, sede della XIV Mostra Mercato Nazionale dell’Antiquariato, era scoppiato un incendio, portando distruzione e morte. Era l’ultimo giorno di apertura al pubblico della manifestazione, nata nel 1969 per iniziativa lungimirante di alcuni privati. L’edizione del 1982 si era aperta il 28 marzo e, come le edizioni precedenti segnate da un sempre crescente afflusso di pubblico, si stava chiudendo nella soddisfazione dei suoi organizzatori e degli espositori partecipanti. A morire furono in 35; molte altre persone, almeno una quarantina, rimasero ferite, alcune delle quali con danni permanenti per le ustioni riportate.

Anch’io ho partecipato alle esequie, celebrate nel Duomo di Todi da S. E. mons. Decio Lucio Grandoni, a cui ha preso parte il card. Giuseppe Paupini, invitato da Giovanni Paolo II, il quale pochi mesi prima, il 22 novembre 1981, aveva visitato la nostra città dopo essersi recato a Collevalenza. “Il Papa è con voi, prega con voi, soffre con voi”: queste parole, pronunciate a gran voce dal card. Paupini, mi si sono scolpite nei timpani; il tono troppo alto mi parve un vaneggiamento che, forse, urtò la sofferenza dei familiari delle vittime, immersi nell’assordante e inconsolabile dolore provocato dalla scomparsa dei loro cari. Quelle morti e le sofferenze dei feriti alzano ancora un denso fumo sulla nostra città, che il 25 aprile 1982 ha vissuto una tragedia che potrebbe essere paragonata a quanto accade a un albero colpito e disintegrato da un fulmine.

Questa pagina dolorosissima della storia della nostra città ha lasciato una ferita aperta nel cuore dei familiari delle vittime e di coloro che portano impressi nella carne i segni delle ustioni. E tuttavia, quella giornata di passione, ha contribuito a scrivere un capitolo importante della prevenzione incendi, facendo maturare la consapevolezza di rendere obbligatorio il certificato, rilasciato dal comando provinciale dei Vigili del fuoco, che attesta il rispetto della normativa e la sussistenza dei requisiti di sicurezza antincendio. Si tratta di un certificato soggetto ad aggiornamento periodico, che ha fatto crescere la cultura della prevenzione, ma a un prezzo insostenibile, quello della vita. Solo la fede pasquale ci consente di trovare la forza di portare il peso di quanto è accaduto quarant’anni fa. Questa fede ci è indispensabile per elaborare il lutto!

Fratelli e sorelle carissimi, con la Risurrezione di Cristo la morte non ha più dominio. “Mors et vita duello conflixere mirando”: così canta la Sequenza pasquale. Si tratta di un duello che vede vincente Cristo, il Vivente, che ha “le chiavi della morte e degli inferi” (cf. Ap 1,18). Davanti al mistero della morte è impossibile togliere le lacrime al pianto, e tuttavia ai credenti il dolore della morte toglie il respiro ma non la speranza! C’è una morte, quella di Cristo, che ha ucciso la morte: la sua tomba vuota è il vessillo della speranza pasquale, che non delude.

+ Gualtiero Sigismondi

Todi – Chiesa di San Fortunato

25-04-2022

L’omelia del vescovo Gualtiero per la Solennità della Dedicazione della Cattedrale

La storia dell’uomo si ripete per inerzia: abbiamo santificato il mercato e profanato il tempio. Il brano evangelico che la liturgia ci fa incontrare nell’odierna solennità (cf. Gv 2,13-22), che coincide con la Giornata mondiale dei poveri, sollecita tutti noi a chiederci non solo se abbiamo fatto della casa della Chiesa particolare un mercato, ma anche se abbiamo eretto altari all’interno dei centri commerciali. Sono interrogativi, questi, a cui non possiamo sottrarci, non tanto per lo spopolamento delle chiese che la pandemia ha incentivato, quanto per l’indebolimento della trasmissione della fede all’interno delle nostre case, chiamate domus Ecclesiae dalla prima comunità cristiana.

Fratelli e sorelle carissimi, porto nel cuore un sogno: ristrutturare le nostre parrocchie con una tessitura di relazioni espresse in piccole comunità familiari, sul modello della casa di Aquila e Priscilla (cf. At 18,1-11). Non si tratta di “censire” ma di “accatastare” tali comunità domestiche, promuovendo la “pastorale del campanello”: questo è uno dei risultati più lusinghieri da raggiungere al termine della fase diocesana del cammino di preparazione alla XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.

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L’omelia del vescovo Gualtiero per la Solennità di San Fortunato e l’apertura della fase diocesana del cammino sinodale della Chiesa italiana

Per una provvidenziale coincidenza, quest’anno la solennità di San Fortunato cade all’inizio del cammino sinodale che vede tutta la Chiesa impegnata a preparare la XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. Questo appuntamento si interseca con il processo che la Chiesa in Italia, su sollecitazione di Papa Francesco, sta avviando per attuare il passaggio, indicato dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium, da una Chiesa “in stato di assedio” a una Chiesa “in uscita missionaria”. Entrambi gli itinerari rappresentano per la nostra Diocesi di Orvieto-Todi un forte stimolo a mettere meglio in asse la sinodalità, sia sviluppando una coscienza ecclesiale che renda ogni battezzato protagonista della vita e della missione della Chiesa, sia rivitalizzando, ad ogni livello, gli organismi di partecipazione, che non possono essere concepiti come semplice cassa di risonanza di decisioni già assunte o, al contrario, come una sorta di tavolo sindacale.

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L’omelia del vescovo Gualtiero per la festa dell’Amore Misericordioso

Fratelli e sorelle carissimi, la solennità odierna – incastonata nel calendario liturgico della Diocesi di Orvieto-Todi – ci invita ad attingere al torrente in piena del Cuore aperto di Cristo, per trovare misericordia, di cui tutti dobbiamo fare buona scorta ogni giorno.

La lex orandi ci consegna una formula di fede bellissima: “Dio manifesta la sua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono”. La misericordia è il profondo respiro della passione che Dio ha per l’uomo. La misericordia è la lungimiranza dell’amore di Dio che non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva (cf. Ez 33, 11). La misericordia è una forza operante anche quando il movimento di conversione non è ancora compiuto, ma appena iniziato. La misericordia fa auscultare il battito del cuore di Dio, il movimento sistolico della commozione e quello diastolico della compassione, come si evince dalla prima lettura (cf. Os 11,1.3-4.8-9). La misericordia manifesta l’infinita bontà di Dio, il quale si china sull’uomo, lo solleva alla sua guancia, gli insegna a camminare, tenendolo per mano, indicandogli la via della carità – tracciata da Paolo nella seconda lettura –, che “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (cf. 1Cor 13,7). La divina misericordia tutto copre ma nulla nasconde: “Quanto dista l’oriente dall’occidente – assicura il Salmista – così allontana da noi le nostre colpe” (cf. Sal 102).

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Solennità del Corpus Domini: l’omelia del vescovo Gualtiero e il video della diretta (03/06/21)

“Questa è la festa solenne nella quale celebriamo la prima sacra Cena”. Mi affido a queste parole della Sequenza della Messa del Corpus Domini per trovare un punto di appoggio. Come durante l’ascensione faticosa verso la vetta d’una montagna, l’alpinista arresta un istante il suo passo per riprendere fiato e per rendersi conto del panorama che si apre davanti al suo sguardo, così anch’io ho bisogno della “nobile semplicità” di questa celebrazione per entrare “in spirito e verità” nel clima della solennità del Corpus Domini, istituita da Papa Urbano IV con la bolla Transiturus de hoc mundo – promulgata a Orvieto l’11 agosto 1264 –, che esprime in profondità teologica quanto la Sequenza traduce in sapienza poetica.

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Celebrata in Duomo la solenne Veglia di Pentecoste. Il testo dell’omelia del vescovo Gualtiero e il video della diretta

Era l’ora del vespro quando giunge improvviso dal cielo un grande fragore, “quasi un vento che si abbatte impetuoso” (cf. At 2,1-2), che riempie “la stanza al piano superiore” (cf. At 1,13) in cui è presente Maria, la Madre di Gesù, insieme agli apostoli, “perseveranti e concordi nella preghiera” (cf. At 1,12-14). Su di loro si posano “lingue come di fuoco” e, colmati di Spirito santo, “cominciano a parlare in altre lingue” (cf. At 2,3-4). Era la stessa ora, quella vespertina, quando i discepoli di Emmaus riconoscono il Signore nella frazione del Pane (cf. Lc 24, 29-31). Come al sorgere dell’aurora la luce pasquale inonda di vita il mondo intero, così al crepuscolo, lo Spirito rinnova tutta la terra. È un singolare “lucernario” quello che accade al compiersi del giorno della Pentecoste; si tratta di un “lucernario” che introduce i discepoli nella grande veglia della storia, quella che affretta nella speranza l’attesa del ritorno glorioso del Signore; si tratta di un “lucernario” che orienta la Chiesa nel mare del mondo, rivolgendo al Signore la stessa supplica che gli Edomiti pongono a Isaia: “Sentinella, quanto resta della notte?” (Is 21,11).

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S. Messa nel centenario della nascita di p. Gianfranco Maria Chiti: l’omelia del vescovo Gualtiero

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,12-13). La metafora della “vite e dei tralci” custodisce questa perla preziosa, con la quale il Signore illumina i suoi discepoli, dicendo loro che l’amore più grande consiste nel dare la vita per i propri amici. Sarebbe lecito pensare che vi possa essere un amore ancora più grande, quello per i nemici, che il Signore stesso chiede di tenere stretti al cuore, benedicendoli. Sarebbe giusto ritenere che l’amore più grande sia quello riservato a coloro che ci schiaffeggiano, a cui è bene porgere l’altra guancia, e tuttavia Gesù assicura che l’amore più grande è quello per gli amici. In effetti, nel lessico dell’amore non c’è spazio per il termine nemico o per il termine schiavo, ma soltanto per le parole amico e fratello. Quando la linfa del Vangelo irrora il cuore non si hanno più nemici da cui difendersi o schiavi da cui farsi servire, ma soltanto amici da custodire e fratelli da incontrare.

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L’omelia del vescovo Gualtiero per la Veglia pasquale

Le restrizioni che l’emergenza sanitaria ci chiama a osservare, per contrastare e superare la pandemia, ci fanno celebrare la Veglia pasquale al tramonto del grande silenzio del sabato santo: essa, invece, dovrebbe precedere o svegliare l’aurora del sole di Pasqua. Viviamo questa veglia, “la più importante e la più nobile tra tutte le solennità”, lasciandoci accarezzare non dalla luce che, all’alba, entra dalla grande vetrata quadrifora dell’abside della nostra cattedrale, ma da quella del rosone che ha la funzione di farne il pieno fino al crepuscolo, quando i colori giocano insieme intorno al sole occiduo, che discende in una “gloria di luce”.

La Veglia pasquale è, per così dire, il poema delle quattro notti. La prima notte è quella della creazione, in cui le tenebre spariscono, dissipate dalla potenza di una “cascata di luce” (cf. Gn 1,3); la seconda notte è quella di Abramo (cf. Gn 15,5; 17,7), quando il grande Patriarca è chiamato alla prova più dolorosa: il sacrificio di Isacco (cf. Gn22,1-18); la terza notte è quella dell’Esodo, in cui Israele passa il Mar Rosso all’asciutto (cf. Es 14,19-29); la quarta notte è quella a cui ha posto termine l’alba radiosa e splendida della Pasqua del Signore. Il contrasto fra le tenebre e la luce, fra la morte e la vita, fra il peccato e la grazia è il grande tema della Veglia pasquale, “in cui risplendono simboli che, senza imporsi, parlano alla vita e la segnano con l’impronta della grazia”.

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