La storia dell’uomo si ripete per inerzia: abbiamo santificato il mercato e profanato il tempio. Il brano evangelico che la liturgia ci fa incontrare nell’odierna solennità (cf. Gv 2,13-22), che coincide con la Giornata mondiale dei poveri, sollecita tutti noi a chiederci non solo se abbiamo fatto della casa della Chiesa particolare un mercato, ma anche se abbiamo eretto altari all’interno dei centri commerciali. Sono interrogativi, questi, a cui non possiamo sottrarci, non tanto per lo spopolamento delle chiese che la pandemia ha incentivato, quanto per l’indebolimento della trasmissione della fede all’interno delle nostre case, chiamate domus Ecclesiae dalla prima comunità cristiana.
Fratelli e sorelle carissimi, porto nel cuore un sogno: ristrutturare le nostre parrocchie con una tessitura di relazioni espresse in piccole comunità familiari, sul modello della casa di Aquila e Priscilla (cf. At 18,1-11). Non si tratta di “censire” ma di “accatastare” tali comunità domestiche, promuovendo la “pastorale del campanello”: questo è uno dei risultati più lusinghieri da raggiungere al termine della fase diocesana del cammino di preparazione alla XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Non mi stancherò di ripetere che se non si riparte dalla famiglia, con una pastorale che non predica ai bambini e benedice gli adulti ma benedice i bambini e predica agli adulti, “l’impegno per l’evangelizzazione sarà sempre una rincorsa affannosa”.
Nelle circostanze attuali il Signore ci chiama a cercare la Sua presenza lungo le strade degli uomini, suonando il campanello delle loro case. E tuttavia non si può rinunciare al suono delle campane, a partire da quello del nostro Duomo, in cui c’è la cattedra del vescovo la quale, secondo San Paolo VI, “trasmette a colui che vi siede sopra l’impressione di un mare che lo circonda”. Calza a pennello, per questa occasione, la famosa storia dei tre muratori impegnati nei lavori di costruzione di una cattedrale medievale. Un tale, incuriosito dal loro zelo, chiede a ognuno di essi: “Cosa stai facendo?”. Il primo risponde: “Sto tagliando una pietra”; il secondo dice: “Sto impilando dei mattoni”; il terzo dichiara: “Sto costruendo una cattedrale in cui sarà possibile rendere gloria a Dio nei secoli a venire”. I tre muratori operano nello stesso cantiere, ma dalle loro risposte si evince che la loro dedizione ha motivazioni profondamente diverse: tanto il primo, che taglia la pietra, quanto il secondo, che impila mattoni, pensano solo a guadagnare il pane, mentre il terzo è consapevole che il sudore della sua fronte contribuisce non solo a ricevere il salario pattuito, ma anche a realizzare qualcosa di grande. Nel cantiere della nostra Cattedrale ha prevalso ampiamente quest’ultima attitudine: committenza e architetti, maestranze e operai, artisti e artigiani hanno operato sinodalmente, “inzuppando” di bellezza questa casa della Chiesa.
Il nostro Duomo “trasuda” di delicata bellezza, affascinando sia il pellegrino che raggiunge la Cappella del Ss. Corporale, sia il turista che, attratto dalla facciata, ne varca la soglia e “naufraga” nella Cappella di San Brizio. La bellezza “immagazzinata” da queste pietre perderebbe il suo splendore se noi, “pietre vive”, dimenticassimo di essere “edificio di Dio” (cf. 1Cor 3,9), fondato sulla “pietra d’angolo” che è Gesù Cristo (cf. Ef 2,19-22). La bellezza di questo tempio parla di Cristo, “unico Salvatore del mondo”, nato da Maria Vergine, l’Assunta. La liturgia delle ore, nel comune della dedicazione di una chiesa, suggerisce le parole da dire a tutti noi, che abbiamo ricevuto in eredità la grazia di abitare questa casa di preghiera: “Padre santo, mistico agricoltore, purifica, custodisci e rendi feconda la tua vigna”; “Pastore eterno, proteggi e moltiplica il tuo gregge, che è la Chiesa”; “divino Seminatore, semina la parola di vita eterna nel tuo campo che è il mondo”; “sapiente Costruttore, mantieni compatta la tua casa e santifica la famiglia radunata nel tuo nome”.
Queste invocazioni raccolgono le intenzioni di preghiera “coniate” dalla lex orandi della Chiesa, la cui maternità è segno visibile della sua fecondità sponsale. Si tratta di implorazioni che trovano mirabile sintesi nell’orazione suggerita dalla liturgia prima dello scambio del dono della pace: “Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e pace secondo la tua volontà”. Grande è la forza evocativa di questa formula rituale che, nella sua nobile semplicità, viene in soccorso alla nostra debolezza, ravvivando la serena fiducia che la Chiesa, “comunità di peccatori e luogo di grazia”, nasce dalla comunione e cresce con la missione, non per affermare se stessa ma per essere fedele al suo Sposo e Signore.
+ Gualtiero Sigismondi