Fratelli e sorelle carissimi, come una casa senza affetti è solo un riparo, così una città senza un campanile è soltanto un insieme di abitazioni. Il campanile di questo tempio, intitolato a San Fortunato, è segno visibile dell’identità civile e religiosa della città di Todi, che ha eletto a sua sentinella il santo vescovo Fortunato. Quello che conosciamo di lui è racchiuso nei Dialoghi di San Gregorio Magno; quello che sappiamo di lui ce lo racconta la devozione del popolo tuderte, che ha eretto in suo onore questo tempio “fuori scala”.
La storia insegna che l’affermarsi del Cristianesimo avviene, anche nella città di Todi, contemporaneamente al disgregarsi dell’Impero romano. La difesa dalle orde dei barbari che percorrono la penisola – da oltre le Alpi o dalle coste del sud con l’obiettivo di raggiungere Roma – è affidata a piccoli agglomerati urbani, edificati quasi sempre intorno a una Chiesa o a un luogo sacro. Ecco assumere un valore fondamentale la figura di San Fortunato, defensor fidei et defensor civitatis, chiamato a preservare la comunità cristiana e civile di Todi da guerre e pestilenze. È proprio intorno alla Chiesa a lui intitolata che, calmatesi le acque burrascose delle grandi invasioni, la nostra città comincia a ricostruirsi e a svilupparsi fino ad assumere la forma che è giunta ai nostri giorni.
“La città – diceva il card. Carlo Maria Martini – è un patrimonio dell’umanità. Essa è stata creata e sussiste per tenere al riparo la pienezza dell’umanità da due pericoli contrari e dissolutivi, quello del nomadismo, che disperde l’uomo togliendogli un centro di identità, e quello della chiusura nel clan che lo identifica, ma lo isterilisce dentro le pareti del noto (…). La città è il luogo di un’identità, che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo e dal diverso (…). La natura delle città incarna il coordinamento delle due tensioni che arricchiscono e rallegrano la vita dell’uomo: la fatica dell’apertura e la dolcezza del riconoscimento”.
“Una comunità che è sicura dei propri valori – osserva Ferruccio De Bortoli – e ne è orgogliosa, non rifugge dal confronto, non teme la contaminazione con chi è diverso. Si confronta e soprattutto integra, plasma, crea nuove appartenenze. E suscita nell’altro, nello straniero, nell’ospite, la consapevolezza di aver guadagnato sul campo la propria cittadinanza. Chi è forte nell’accoglienza non teme di perdersi nella promiscuità. Non ha paura di restare in minoranza nella propria condizione autoctona, ma si preoccupa di condividere i propri valori con l’altro, rispettandolo. Insieme saranno nuovi cittadini di una città che cresce, si evolve e matura”.
All’inarrestabile sfida e opportunità del fenomeno migratorio, che non compromette ma modella il profilo di ogni comunità, si associa la questione – non solo numerica – del lungo inverno demografico. A rendere più rigida tale stagione sono i “nomadi” stanziali, un gregge smarrito formato soprattutto dalle giovani generazioni, connesse con tutto il mondo ma prive di legami con il prossimo. La dipendenza dai social, l’inquinamento comunicativo, è un ciclone che si abbatte sia sulla socializzazione nella città, sia sulla comunione nella Chiesa. Dialogare, sapendo ascoltare, è un’arte sempre più rara, perché la logica del “like” prevale sul riconoscimento del merito: per convincere non bisogna più dimostrare, ma è sufficiente mostrarsi.
Occorre porre un argine – anche nella Chiesa! – al flusso chiassoso del “like”, che non lascia traccia, riscoprendo il silenzio e la riflessione, senza i quali è impossibile assicurare un “peso specifico” alle parole che usiamo. Come per salvare la democrazia è indispensabile una nuova “ecologia della parola”, così per rinnovare la Chiesa è necessario “conservare un contatto continuo con le Scritture mediante una lettura spirituale assidua e uno studio accurato” (Dei Verbum, 25). Logos viene dal verbo greco legein, che significa raccogliere, rilegare; tale etimologia suggerisce alla Chiesa di essere nella città degli uomini la “legatoria d’arte” di una “fraternità ordinata”.
San Fortunato benedica la nostra comunità diocesana e l’aiuti a custodire la comunione, senza la quale l’annuncio della gioia del Vangelo non è credibile. “Una Chiesa che ha perso la gioia (del Vangelo) ha perso l’amore”: questa diagnosi compiuta da Papa Francesco, in occasione del 60° anniversario dell’inizio del Concilio ecumenico Vaticano II, mentre ci indica la via da seguire ci interroga. “Quante volte si è preferito essere tifosi del proprio gruppo, ergersi a custodi della verità o a solisti della novità, anziché riconoscersi figli umili e grati della santa Madre Chiesa?”.
+ Gualtiero Sigismondi