“Signore Dio onnipotente, che ci avvolgi della luce del tuo Verbo fatto uomo, fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito”. Da questa orazione della Messa dell’aurora di Natale, letta in sinossi con il Preconio pasquale, si evince che la luce dell’Incarnazione del Verbo avvolge la Chiesa, mentre la luce della Risurrezione di Cristo la inonda di grande splendore. Quella della “notte placida” è una “luce gentile”; il “sole di Pasqua” è una “fontana di luce”. A Natale la gloria del Signore avvolge di luce i pastori a cui un angelo annuncia la nascita del Salvatore; a Pasqua è sempre un angelo, grondante di luce, a mostrare alle donne la tomba vuota. Nella mangiatoia l’astro che rifulge fra le tenebre del mondo sveglia l’aurora della “pienezza del tempo”; al sepolcro il rotolare della pietra che lo sigilla annuncia lo spuntare dell’ottavo giorno. Come la luce di una stella mette in cammino i Magi, “primizia dei popoli chiamati alla fede”, così il sorgere dell’alba radiosa e splendida del giorno di Pasqua apre la strada al Vangelo. La luce crea sempre un percorso: ogni fascio di luce indica il sentiero della vita, ogni raggio di luce traccia alla terra una via al cielo.
Tutto il tempo di Natale è caratterizzato dal tema della luce, a motivo del fatto che, nell’emisfero nord, dopo il solstizio d’inverno il giorno riprende ad allungarsi rispetto alla notte. Gesù è il sole apparso all’orizzonte dell’umanità; sant’Agostino riassume questo mistero con un’espressione bellissima: “Ciò che per gli occhi del corpo è il sole che vediamo, lo è (Cristo) per gli occhi del cuore” (Sermo 78,2). Egli, “luce del mondo” (cf. Gv 8,12), è la “luce vera, quella che illumina ogni uomo” (cf. Gv1,9): “la luce della vita” (cf. Gv 1,4; 8,12). “Dio è luce” (1Gv 1,5): Egli tesse di chiara luce la trama della storia, rivelandosi nella disarmante semplicità di un bambino “avvolto in fasce” dalla Madre sua e da Lei stessa deposto in una mangiatoia. Per contemplare il Salvatore in braccio alla Madre di Dio dobbiamo attendere l’Epifania; a Natale nemmeno Lei osa stringerlo al seno, prefigurando il mistero della deposizione dalla Croce che la vedrà, desolata, aprire le braccia per avvolgere nel “manto” dello Stabat Mater il Figlio suo, esanime, cuore a cuore, entrambi trafitti, uno dalla lancia del soldato, l’altro dalla spada del dolore.
Il Mistero del Natale del Signore, contemplato sia facendo “zoom” sul Prologo del Vangelo di Giovanni, sia montando il “grandangolo” all’obiettivo dei Sinottici, ci chiama ad avvicinarci non solo a Maria, ma anche a Giuseppe, suo sposo. Egli è l’uomo mediante il quale Dio si prende cura degli inizi della storia della redenzione:vede nascere il Messia in una stalla (cf. Lc 2,6-7); è testimone dell’adorazione dei pastori (cf. Lc 2,8-20) e dei Magi (cf. Mt 2,1-12), che rappresentano rispettivamente Israele e i popoli pagani. Assume la paternità legale di Gesù bambino, a cui impone il nome rivelato dall’Angelo (cf. Mt 1,21). Quaranta giorni dopo la sua nascita, insieme a Maria lo presenta al Tempio e ascolta, sorpreso, la profezia di Simeone (cf. Lc 2,22-35). Per difenderlo da Erode, soggiorna da straniero in Egitto (cf. Mt 2,13-18). Ritornato in patria, vive nel nascondimento del villaggio di Nazaret, lontano da Betlemme, sua città natale, e da Gerusalemme, ove durante un pellegrinaggio smarrisce Gesù dodicenne e, in preda all’angoscia, lo ritrova nel Tempio a discutere con i dottori della Legge (cf. Lc 2,41-50).
Giuseppe, “uomo giusto”, vive la missione ricevuta da Dio senza impadronirsi della scena. Nel presepio si colloca all’ultimo posto, passando inosservato: forse nemmeno i pastori, guidati dal canto degli angeli, si accorgono della sua presenza discreta; di lui non si fa menzione neanche quando arrivano i Magi a Betlemme. Giuseppe si mette in “seconda linea”, e tuttavia i racconti dei vangeli apocrifi, che hanno influenzato l’arte, non lo pongono sotto il moggio ma sopra il lucerniere. Egli, però, quale “maestro dell’essenziale” perché “discepolo della semplicità”, continua a istruirci con il suo eloquente silenzio, accogliendo quanto gli accade non come un imprevisto da cui difendersi, tirandosi indietro, ma come un mistero che nasconde una Provvidenza d’amore. Giuseppe testimonia che l’alfabeto del suo profondo silenzio è fatto di gesti concreti, che la grammatica dell’amore osserva l’ortografia della libertà da se stessi, che la sintassi del servizio è quella della gratuità, che il vocabolario della sequela è quello che assume la postura agile e perseverante dei pellegrini, che sanno camminare insieme e inginocchiarsi quando è necessario. Immaginare Giuseppe in ginocchio, nel cono di luce di Maria sua sposa, non è una concessione alla fantasia.
+ Gualtiero Sigismondi