Solennità di San Giuseppe 2023 – Omelia

Il “deserto quaresimale” a Orvieto inizia a fiorire nella solennità del suo Patrono, San Giuseppe. La liturgia ci fa salire con lui a Gerusalemme ove Gesù, dodicenne, senza che nemmeno sua Madre se ne accorga, si ferma a dialogare con i dottori nel tempio. Quando Maria e Giuseppe ripartono per Nazaret, dopo una giornata di viaggio lo cercano, invano, tra i parenti e i conoscenti. Costretti a tornare indietro, tre giorni dopo “lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava” (Lc 2,46).  “Figlio – gli chiede sua Madre –, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo” (Lc 2,48). “Maria – rileva Papa Francesco – non dice io e tuo padre: prima dell’io c’è il tu!”. “Perché mi cercavate? Non sapevate – chiede Gesù – che devo essere nelle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). Il silenzio con cui replicano alle parole di Gesù porta a compimento l’opera della consegna di sé iniziata da Dio stesso nei loro cuori: immacolato quello di Maria e castissimo quello di Giuseppe. Egli, in questa circostanza, prende coscienza di aver dato a Gesù “non i natali, ma lo stato civile”.

Nell’odierna solennità siamo chiamati a specchiarci nella paternità di Giuseppe, che spalanca spazi all’inedito. Nella Lettera apostolica Patris corde Papa Francesco scrive che “ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso inutile, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita, quando si pone nella situazione di Giuseppe, il quale ha sempre saputo che quel Bambino non era suo, ma era stato semplicemente affidato alle sue cure (…). Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, dobbiamo sempre ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma segno (…), ombra dell’unico Padre celeste”.

Fratelli e sorelle carissimi, padri non si nasce ma lo si diventa con la mite fortezza del timore e della gioia grande, della saggezza e del coraggio. A giudizio di San Paolo VI, la paternità è “un sentimento che invade lo spirito e il cuore: è forte e leggero come la vita, cessa solo all’ultimo respiro”. La paternità, nella diversità delle sue sfumature – biologica, adottiva, spirituale, educativa, culturale, politica –, sa accogliere qualsiasi distacco, abbandonando la pretesa di tenere tutto sotto controllo, come ha saputo fare Giuseppe, il quale ha amato Gesù in modo incondizionato e appassionato, cioè in maniera straordinariamente libera.

Il severo scrutinio della paternità – anche quella spirituale, cioè quando uno si assume la responsabilità della vita di un altro – consiste nell’amare la libertà altrui più della propria, senza assecondare gli errori, fingere di non vederli o, peggio, condividerli. La tutela del carattere asimmetrico del rapporto educativo è garanzia della qualità della sua autorevolezza, che non può fare affidamento sui “silenzi pusillanimi”, tanto insidiosi quanto dannosi non meno di una “tempesta di parole”. Essere consapevoli che i no di oggi sono i di domani è segno di vera paternità, esercitata da chi non osa bruciare le tappe perché ha ben chiaro che “ognuno ha la sua pienezza del tempo”. Vedere i figli diventare adulti è motivo di grande consolazione, che chiede ai genitori un prezzo molto alto, non scontabile, quello di lasciarli partire. Un padre e una madre sono veramente tali se non legano a sé i propri figli, ma godono nel vederli crescere e nel seguire le loro “prove di volo”, allenandosi a farsi da parte senza mettersi in disparte.

“Stava loro sottomesso” (Lc 2,51): dopo la sosta non autorizzata nel tempio di Gerusalemme, Gesù rientra a Nazaret, sotto la scorta di Maria e Giuseppe, crescendo “in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52). Colpisce l’ordine dei termini che rilevano, per così dire, la tridimensionalità dello sviluppo di Gesù: “sapienza, età e grazia”. La crescita in età non giunge a piena maturazione se non è alimentata da quella in sapienza e se non è fecondata dalla docilità alla grazia. San Giuseppe, che ha visto crescere Gesù bambino, porta un nome che in ebraico ha il significato di una benedizione: “Dio accresca, Dio faccia crescere”. Questa benedizione scenda sulle nostre famiglie, sulla città di Orvieto, posta sotto il patrocinio di San Giuseppe, sulla Chiesa universale e, in particolare, sulla nostra Diocesi: il Signore la purifichi e la rafforzi e, “poiché non può sostenersi senza di Lui, non la privi mai della sua guida”.

+ Gualtiero Sigismondi

Orvieto - Basilica Cattedrale
18-03-2023