VANGELO
Giovanni 14,15-16.23-26
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”.
COMMENTO
Con l’irrompere dello Spirito santo a Pentecoste, i credenti trovano direttamente dentro di sé la forza di annunciare il Vangelo al mondo che li circonda
“È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito” (Gv 16,7). Queste parole pronunciate da Gesù nei “discorsi di addio”, che l’evangelista Giovanni colloca nel contesto dell’ultima cena, tracciano un legame di “causa-effetto” tra le solennità liturgiche dell’Ascensione e della Pentecoste.
La preghiera di Gesù rassicura, nel Vangelo di questa domenica, la sua nuova presenza in mezzo a noi dopo la sua ascensione al Cielo: “E io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre” (Gv 14,16). Nei “discorsi di addio” troviamo più volte il termine paràclito , che in altre traduzioni è reso con “consolatore”. Può essere usato come sinonimo dello Spirito santo ma, alla lettera, il termine paràclito indica un concetto di presenza e vicinanza: “chiamato affinché assista e aiuti”. Una presenza e vicinanza non generica, ma fattiva e personale.
Lo stesso testo evangelico indica una prossimità che si fa interiorità fisica: “… e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23), dice Gesù in relazione al Padre.
La presenza e l’azione di Gesù non si interrompe con l’ascesa al Cielo, ma continua, anzi prende dimora in noi. Egli è “Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23). Come il Verbo si è fatto carne nel grembo della Vergine (cfr. Gv 1,14) e ha preso dimora presso di lei, così lo Spirito, che è l’amore del Padre e del Figlio, “pongono la loro tenda” presso di noi.
Quella dello Spirito è un’azione liberante, che si esprime con il soffio lieve della brezza, ma anche con il vento impetuoso che spalanca le porte chiuse del nostro egoismo e apre i confini troppo ristretti, chiusi sugli orizzonti di novità. L’immagine della pietra del Sepolcro divelta dalla forza della vita, animata dallo Spirito, contrasta con la porta chiusa del Cenacolo. La paura e la mancanza di fede degli apostoli hanno circoscritto la loro speranza a una stanza divenuta fortino, dove nessuno poteva entrare. Ma “venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano” (At 2,2).
Maria, che conosce l’armonia dello Spirito santo, sa distinguere anche i diversi spartiti con cui si esprime. Le diverse note che consentono ai discepoli di cantare la novità della Risurrezione raggiungono quanti sono a Gerusalemme, come ci ricorda la prima lettura; e ognuno li comprende secondo la propria lingua (At 2,4.8.11).
Chi si lascia coinvolgere nell’amore trinitario, diventando grembo della rugiada dello Spirito, raggiunge l’apice della libertà, arrivando a chiamare “Abbà , Padre” Dio stesso.
Con questo termine san Paolo, nella seconda lettura, descrive il rapporto di tenerezza con Dio di ogni credente animato dallo Spirito (Rm 8,15). È lo stesso nome che Gesù usa per rivolgersi al Padre nei momenti di intimità, per esempio quando chiede che passi da lui il “calice della sofferenza” (Mc 14,36), ma possiamo immaginare che lo usasse in ogni momento di intima preghiera.
Questa stessa libertà interiore la ritroviamo in Gesù nei confronti della Legge. Lo Spirito infatti non cancella i Comandamenti ma ne fa emergere la radicalità e l’essenzialità. Rende capaci di distinguere le regole applicative legate al tempo, quindi transitorie, da ciò che rimane per sempre a custodia dell’amore.
Lo Spirito che soffia nel cuore dell’uomo lo rende capace di cogliere nel profondo della coscienza questa distinzione. È una condizione nuova, più impegnativa, perché il parametro di riferimento non è “la leggina” che ci dà l’impressione di stare nel giusto e invece, magari, calpestiamo il fratello!
Il comandamento dell’amore ha come pilastro l’amore di Dio, ma ha come termine la condizione dell’umanità, che assume il volto del prossimo.
Lo Spirito che soffia sulla Chiesa la rende libera, fa uscire gli apostoli dal Cenacolo: ora senza paura affrontano la sfida dell’evangelizzazione, fino ai confini della terra (cfr. At 1,8).
Davanti agli apostoli c’è un mondo non totalmente diverso dalla condizione dell’attuale contesto, nel quale la Chiesa è chiamata a immergersi.
E il cammino sinodale, attraverso questo tempo di ascolto, ci descrive, sì, una Chiesa con le sue luci e le sue ombre; ma le si riconosce ancora la capacità di attrarre ogni qualvolta mostra il volto della misericordia, ogni qualvolta si fa grembo accogliente della vita, di ogni vita, in ogni condizione e status.
Perché è sempre Gesù che continua ad attrarre; ogni volta che la Chiesa si fa trasparenza del suo volto, ogni uomo e donna di ogni etnia, lingua e condizione non possono non riconoscere in lui il senso e il fine della propria vita. Lui che è Via, Verità e Vita.
A cura di don Andrea Rossi
Tratto da La Voce del 3 giugno 2022