Festa della Dedicazione della Cattedrale 2023- L’omelia del Vescovo Gualtiero

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La cattedrale è il cuore della planimetria di una città: tutto da lì si dirama e ad essa converge. Un movimento centripeto e centrifugo contraddistingue il Duomo di Orvieto, eretto non sul pinnacolo del campanilismo, bensì sulla Rupe dello “stupore eucaristico”. Il paesaggio italiano e quello europeo non sarebbero patrimonio dell’umanità senza i profili delle cattedrali. “Un amico mi chiese – scrive il poeta tedesco Heinrich Heine – perché non si costruivano più cattedrali come le gotiche famose, e gli dissi: gli uomini di quei tempi avevano convinzioni; noi, i moderni, non abbiamo altro che opinioni, e per elevare una cattedrale gotica ci vuole qualcosa di più che un’opinione”.

Questione di convinzioni, non di opinioni: questione di fede è l’edificazione di una Cattedrale. Quanto questo sia vero lo sottolinea il ven. Fulton Sheen, arcivescovo statunitense vissuto nel secolo scorso: “Quando la civiltà era permeata da una filosofia più felice, quando le cose erano viste come espressione visibile dell’invisibile, l’architettura era abbellita con migliaia di decorazioni: un pellicano che nutre i suoi figli con il proprio sangue simboleggiava il sacrificio di Cristo; la gargolla (parte terminale dello scarico dei canali di gronda) che faceva capolino da dietro una colonna in una cattedrale ci ricordava che le tentazioni possono raggiungerci persino nei luoghi più sacri. Nostro Signore, in vista del Suo ingresso a Gerusalemme, disse che se gli uomini avessero trattenuto la lode di Dio, ‘le pietre avrebbero gridato’ (cf. Lc 19,40)”.

La solenne imponenza delle pietre di questa Cattedrale, che gridano la fede della Chiesa e grondano la devozione dei nostri padri, ci interroga: la nostra testimonianza cristiana è simile al frinire delle cicale o al ronzio dell’operosità delle api? Il ciclo di una cicala abbraccia l’arco di tempo della stagione estiva; quando muore non resta traccia della sua esistenza. Il ciclo di un’ape, tanto breve quanto intenso, è regolato da una sorta di “monarchia repubblicana”, che disciplina le relazioni tra l’ape regina, i fuchi, cioè i maschi, e le api operaie: le nutrici, le spazzine, le bottinatrici e le guardiane. La loro coordinazione all’interno delle colonie dell’alveare o dell’arnia crea un meccanismo sinodale, con compiti ben definiti: costruzione del nido, organizzazione del cibo, regolazione della temperatura, accudimento delle larve. Le api, attirate dalla fragranza dei profumi, non sciupano la bellezza dei fiori, da cui suggono il polline e il nettare, che in parte trasferiscono negli altri fiori, andando così a fecondarli, e in parte trasportano dentro il favo: “incubatrice” e “magazzino” dell’alveare.

La nostra fede ha molto da imparare dalla fecondità dell’ape madre e dalla laboriosità delle api, agili nel vivere l’avventura dello sciame, ma allergiche allo scisma, infaticabili sia nel ventilare calore utile alle larve, sia nel depositare nelle celle esagonali di cera le sostanze prelevate dai fiori, trasformandole in miele per il loro nutrimento e per quello degli uomini. L’operosità delle api, cantate dal Preconio pasquale, suggerisce un’analogia e suscita una domanda. Questo Duomo, frutto del lavoro di squadra delle maestranze, svolto in modo analogo a quello delle api, alimenta la nostra fede o amplifica il frinire di tanti discorsi che non sanno riconoscere, nello spartito della bellezza, gli elementi melodici dell’arte intrecciati con quelli armonici della fede?

Romano Guardini, entrando nel Duomo di Monreale, durante la liturgia della Messa crismale, prova una profonda emozione e formula alcuni pensieri che si adattano anche alla nostra Cattedrale. “Oggi ho visto qualcosa di grandioso. Sono colmo di un senso di gratitudine (…). Che dovrei dire dello splendore di quel luogo? (…). Dapprima lo sguardo del visitatore vede una basilica di proporzioni armoniose. Poi percepisce un movimento nella sua struttura, e questa si arricchisce di qualcosa di nuovo, un desiderio di trascendenza l’attraversa sino a trapassarla; ma tutto ciò procede fino a culminare in quella splendida luminosità. Quando la processione, accompagnata dall’insistente melodia dell’antico inno, portò gli olii sacri alla sagrestia (…), gli spazi vennero incontro alle orecchie tese in ascolto e agli occhi in contemplazione. La folla stava seduta e guardava. Tutti vivevano nello sguardo, tutti erano protesi a contemplare. Allora mi divenne chiaro qual è il fondamento di una vera pietà liturgica: la capacità di cogliere il santo nell’immagine e nel suo dinamismo”.

Fratelli e sorelle carissimi, “cogliere il santo”: a questo serve la Cattedrale! A nient’altro! Lo zelo per il nostro Duomo ci renda sempre attenti allo schiocco della frusta di queste parole di Gesù: “Non fate della casa del Padre mio un mercato!” (Gv 2,16).

+ Gualtiero Sigismondi

Orvieto – Cattedrale
12-11-2023