Sacerdozio. Un ritratto alla luce del Vangelo e della tradizione della Chiesa

Servi premurosi del popolo di Dio

Che cosa un prete è... e che cosa no. Mons. Gualtiero Sigismondi ci offre una acuta analisi per termini-chiavi dalle pagine del settimanale regionale "La Voce".

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Per comunicarsi agli uomini, Dio ha voluto aver bisogno di loro, di testimoni nei quali lo Spirito santo scolpisce l’immagine di Cristo “sommo ed eterno sacerdote”, ma non garantisce che saranno migliori degli altri, e non impedisce nemmeno che possano cedere o cadere. Il Signore ha messo il suo amore in rapporto con la libertà umana, accettando il rischio di venire rifiutato. Questa opzione della misericordia divina, che non si impone né prevarica sulla libertà umana ma la rispetta e la esalta, è tanto sorprendente quanto imprudente! Sorprendente per l’uomo, perché ogni prete è un “vaso di creta” colmato di uno straripante tesoro (cf. 2Cor 4,7); imprudente per Dio che, con il sacramento dell’Ordine, affida alla creatura umana un eccezionale “peso di grazia”. Umiltà e grandezza sono i due fuochi della vita di un prete “collegato intimamente, anzi strutturalmente, all’eucaristia”. Edificante è quanto scrive in una lettera aperta ai sacerdoti lo scienziato Enrico Medi, morto nel 1974 e per il quale è in corso la causa di beatificazione. “Sacerdoti, sappiate che mi sono sempre chiesto come fate voi a vivere dopo aver detto messa. Ogni giorno avete Dio tra le mani (…). Con le vostre parole trasformate la sostanza di un pezzo di pane in quella del Corpo di Cristo in persona (…). Siete grandi! Siete creature immense! Le più potenti che possano esistere. Chi dice che avete energie angeliche, in un certo senso, si può dire che sbaglia per difetto. Sacerdoti, vi scongiuriamo: siate santi! Se siete santi voi, noi siamo salvi. Se non siete santi voi, noi siamo perduti! Sacerdoti, noi vi vogliamo ai piedi dell’altare”.

I ministri ordinati, per quanto lo comporti la loro debolezza e lo consenta la loro fragilità, hanno la grazia di astare coram Deo (stare alla presenza di Dio). Scelti dal Signore con “affetto di predilezione”, hanno la responsabilità di servire il sacerdozio comune dei fedeli, con i quali formano l’unico popolo sacerdotale. La loro statura ministeriale è strettamente correlata alla loro condizione di “servi inutili” (cf. Lc 17,10), non nel senso che non valgono niente, ma che non cercano il proprio utile, come un fiammifero che, consumandosi, adempie alla sua funzione. Se il Canone romano presenta i ministri ordinati come “peccatori fiduciosi nella infinita misericordia di Dio”, il prefazio della Messa crismale li chiama “servi premurosi del popolo di Dio”.

– Servi fedeli, stabili nell’amore, capaci di consegnarsi liberamente, “fino alla fine” (cf. Gv 13,1), senza avanzare rivendicazioni o pretese di alcun genere.

– Servi umili, desiderosi di servire e non di essere serviti, disposti in maniera costante e integra a fare della loro vita un’opera di misericordia.

– Servi mansueti, consapevoli che non può avere la “stoffa” del buon Pastore chi non ha la “lana” dell’Agnello immolato.

– Servi docili, spinti dall’amore di Cristo e dalla passione per la Chiesa, che non cercano di affermare se stessi ma di esprimere ciò che il Signore dona loro di essere.

– Servi zelanti, che non ricusano il lavoro pastorale, “impegnati a tempo pieno e non a mezzo servizio con semplici prestazioni part-time”.

– Servi integerrimi, che rifuggono dalle ambiguità, dai compromessi, dai sotterfugi, lasciandosi guidare in ogni cosa dalla “rettitudine di intenzioni”.

– Servi buoni, che conducono una vita laboriosa e gioiosa, priva di sovrastrutture, “lontana dalle lusinghe degli interessi umani”.

– Servi saggi, “amanti della parola profetica, libera”, lungamente cercata nella preghiera, alimentata da una conoscenza viva e penetrante della Parola.

– Servi prudenti, capaci di “accoglienza, affabile bontà, autorevole fermezza nelle cose essenziali, libertà dai punti di vista troppo soggettivi”.

Scelti tra i fratelli per essere “fedeli dispensatori dei santi misteri”, i presbiteri sono “servi premurosi del popolo di Dio” nella misura in cui si accreditano come “peccatori fiduciosi nella divina misericordia”, che non rinunciano a osservare, con cuore libero e ardente, gli impegni assunti il giorno dell’ordinazione. Tali impegni si possono declinare in una sorta di decalogo:

– non trascurare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mani;

– vigila diligentemente su te stesso e sul popolo di Dio a te affidato;

– ricordati di celebrare assiduamente la liturgia delle ore e i sacri misteri;

– onora il vescovo con filiale rispetto e “non fare nulla senza di lui”;

– non uccidere i confratelli con il veleno delle labbra o dell’indifferenza;

– non soddisfare la passione del clericalismo e non cedere alle sue opere;

– non mercanteggiare la Parola di Dio e non ingolfarti in affari terreni;

– non falsificare la verità rinunciando a insistere opportune et importune;

– non desiderare di essere servito, e non dimenticare di essere “servo inutile”;

– non aspirare per vile interesse a cose troppo grandi, superiori alle tue forze.

 “Instancabili nel dono di sé, vigilanti nella preghiera, lieti e accoglienti nel servizio della comunità”: questo è il profilo che la lex orandi traccia dei ministri ordinati, i quali esercitano una missione mai proporzionata alle loro forze. “Non preoccuparti – raccomandava don Tonino Bello a un giovane diacono, prima di ordinarlo presbitero – : non ti si chiede nulla di straordinario.

Si chiede soltanto che, ovunque tu vada, possa diffondere attorno a te il ‘buon profumo di Cristo’. Che ti lasci scavare l’anima dalle lacrime della gente; che ti impegni a vivere la vita come un dono e non come un peso; che esprima in mezzo alla gente una presenza gioiosa, audace, intelligente, propositiva”. Custodisco come gemma preziosa la testimonianza raccolta al capezzale di un prete, felicemente parroco: “Muoio contento, vorrei che si sapesse”.

 

+ Gualtiero Sigismondi

Vescovo di Orvieto-Todi, Amministratore apostolico di Foligno

 

 

Tratto da Cor Unum, p. 5, inserto de La Voce, n. 36 del 23 ottobre 2020