VANGELO
Giovanni 20,1-9
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
COMMENTO
Come possiamo cantare la gioia della Pasqua mentre la guerra produce dolore e morte? La Pasqua è la sorpresa che stravolge la vita. A noi spetta considerarla come possibile anche in mezzo alla devastazione della morte, come le donne al sepolcro
“Come cantare i canti del Signore in terra straniera?” (Sal 137,4). Come cantare la gioia della Pasqua nell’attuale condizione? Il dolore e la morte, come una coltre grigia sembrano neutralizzare anche i primi colori della primavera.
Il nostro cuore è segnato dalle ferite della guerra, il nostro corpo è ancora segnato dalle ferite della pandemia e ancora, molte famiglie, come ci ricorda il salmo, sono ancora sedute “Lungo i fiumi di Babilonia” (Sal 137,1) che piangono il loro lutto.
Eppure un grido si ode: “Cantateci i canti di Sion! ” (Sal 137,3).
È l’umanità senza speranza, schiacciata dal dolore, ripiegata su sé stessa, perché la sofferenza, la morte, sono un macigno che ha rinchiuso ogni attesa nel sepolcro della disperazione. È un grido rivolto ai credenti, è un grido rivolto a noi cristiani, rinati dal sepolcro del fonte battesimale.
È un grido rivolti a noi, uomini e donne del mattino di Pasqua, descritti in questa preghiera: “Oh Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace/dove è odio, fa’ che io porti l’amore/dove è offesa, che io porti il perdono,/dove è discordia, che io porti l’unione, dove è dubbio, che io porti la fede,/ dove è errore, che io porti la verità,/dove è disperazione, che io porti la speranza,/dove è tristezza, che io porti la gioia,/dove sono le tenebre, che io porti la luce”. (cfr. San Francesco, Preghiera Semplice).
A noi spetta cantare la Pasqua, anche in questo tempo.
In quanti altri oscuri tornanti della storia, i credenti hanno celebrato la Pasqua con speranza! Cristiani ed ebrei, uniti nel dolore dei campi di sterminio, hanno condiviso la speranza di un nuovo “Esodo” dalle schiavitù del momento, forse non hanno rivisto la loro terra dalla quale sono stati strappati, ma con la Pasqua non hanno perso la speranza di raggiungere la vera terra promessa, comune nella fede nel Dio unico e creatore.
Anche le donne che di buon mattino si recano al sepolcro (cfr Lc 24,1), portano con sé le ferite del venerdì santo. Il loro cuore è appesantito e desolato dal ricordo dell’ingiusto dolore recato ad un uomo buono, portatore di speranza, che aveva risvegliato la fede e l’amore, perché aveva mostrato il volto di un Dio misericordioso, il volto di un Padre buono che ama i propri figli.
Queste donne erano state sotto la croce, avevano visto il sangue scendere a terra, i loro occhi “impressionati” dalla scena della croce, avevano seguito la scena della deposizione dalla croce e la reposizione del corpo di Gesù nel sepolcro (cfr. Lc 23,55).
L’amore per Gesù le spinge al sepolcro a compiere il pietoso rito dell’unzione del cadavere. Era necessario attendere la fine del sabato, il giorno della festa.
Il giorno dopo sembra non avere nome, il testo evangelico lo chiama così: “il primo giorno della settimana” o “il primo giorno dopo il sabato” (cfr. 24,1). Non ha un nome definito, perché non segue la ciclicità del tempo, ma apre ad un tempo nuovo: nulla sarà più come prima.
La prima lettura della Veglia Pasquale, ci ricorda che la terra era informe, come la vita deturpata dal dolore e dalla morte, ma lo spirito dà una nuova forma, è la creazione: “primo giorno, fu sera e fu mattino” (cfr. Gen 1,2-5). alla sera sembra scaturire il giorno, come dalla morte la vita del giorno di Pasqua: è la nuova creazione.
Il cammino delle donne verso il sepolcro evoca l’esodo del popolo d’Israele narrato nella terza lettura. È un cammino verso la realtà della morte: prendere coscienza di un corpo da ricomporre nella tomba. Ma l’approdo è ben diverso: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui è risorto” (Lc 24,5-6).
Per le donne diventa un esodo interiore, una uscita dalle certezze delle realtà solo umane.
La loro esperienza ci dice di non aver paura di stare là dove le vicende della vita ci hanno condotto. Il dolore, la paura, la condizione della vita, lì inizia la novità, lì il Signore della vita ha posto la sua dimora e si prende cura delle ferite. Quel dolore è la dimora che il Signore ha scelto di condividere con noi e segna l’inizio del passaggio dalla morte alla vita.
È la Pasqua del Signore. Il sabato santo dell’attesa è il frutto maturo del venerdì santo che non è stato vinto dalla disperazione, ma si è lasciato accompagnare dal Cristo sofferente che si è fatto “cireneo” dello nostre croci.
La Pasqua è una irruzione della vita nelle nostre morti quotidiane. Non è un lento procedere verso la gioia, programmato secondo i nostri piani, ma la sorpresa che stravolge la vita.
A noi spetta non escludere questa sorpresa dalla vita stessa, considerarla come possibile anche in mezzo alla devastazione della morte, come le donne al sepolcro.
È questa prospettiva che rende visibile la vita oltre la morte: si chiama fede e a noi spetta la gioia di annunciarla.
A cura di don Andrea Rossi
Tratto da La Voce del 15 aprile 2022