IV DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C

Obbedire senza amare e capire

27 marzo 2022

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VANGELO

Luca 13,1-9

In quel tempo, Gesù (…) disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due (…) partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio (…) . Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli (…) Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. … E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; (…) Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».


COMMENTO

Il figlio maggiore fa tutto secondo le regole, ma da schiavo di se stesso. Si erge a giudice a partire dalla sua obbedienza senza amore.
Un atteggiamento che ritroviamo anche oggi in tanti credenti

Il cammino della Quaresima prosegue approfondendo il tema della conversione tracciato domenica scorsa. L’appello del versetto introduttivo al Vangelo, ce ne ricordava l’urgenza: “Convertitevi, il regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17).

Questa quarta domenica e la prossima ci presentano la conversione nella sua concretezza. Un figlio scellerato che ritorna in sé, che scopre chi era veramente suo padre (Lc 15,17) e una donna in attesa della condanna, salvata dalla legge della misericordia (Gv 8,11). Il testo evangelico di questa domenica è il culmine delle parabole che spiegano cosa vuol dire misericordia: la pecora smarrita e ritrovata (Lc 15,4-7) e la moneta perduta e ritrovata (Lc 15,8-10).

Il capitolo 15 del Vangelo di Luca è un inno alla misericordia del Padre buono e si conclude proprio con la parabola dei due figli (Lc 15,11-32) chiamati a compiere un percorso, geografico e ed interiore, di uscita dal proprio egoismo, per ritrovare l’abbraccio del Padre che li ha sempre amati. Le storie narrate fanno emergere vari sentimenti: l’orgoglio, l’invidia, la paura, la gelosia, il risentimento, fino al desiderio di cancellare l’altro. Ma in tutte e tre le storie, il ritrovamento, il ritorno, fanno esplodere il sentimento della gioia (Lc 15,5.9-10.23.32).

Non è la semplice esultanza del momento, ma il cambiamento di uno “status”, la vita nuova rigenerata dal dono della riconciliazione che è il regalo fatto dal Padre, “semplicemente” perché Dio è amore (1Gv 4,8).

Un regalo adombrato nella terra nuova e promessa, narrata nella prima lettura (Gs 5,9a.10-12): gli Israeliti, mangiarono la Pasqua, non più con la manna, ma con i frutti della terra. Dio aveva allontanato da loro l’infamia dell’Egitto (cfr v. 9a).
Un regalo realizzato e permanente che è la Pasqua, descritta dalla seconda lettura: “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove (2Cor 5,17).
Condividere la gioia di questo dono accresce la festa e il salmo lo sottolinea con queste parole: “Benedirò il Signore in ogni tempo/sulla mia bocca sempre la sua lode. Guardate a lui e sarete raggianti/i vostri volti non dovranno arrossire” (Sal 33,2.7). Ma per gustare la gioia ed esultare per il dono fatto a noi nel tempo e per l’eternità è necessario farci piccoli, abbassare il nostro orgoglio, riconoscerci poveri.
Ce lo insegna lo stesso salmo: “I poveri ascoltino e si rallegrino. Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce” (Sal 33,3.7).
Chi è ricco di sé stesso, non riconosce nemmeno la ricchezza a sua disposizione: “Figlio, tu sei sempre stato con me e tutto ciò che è mio è tuo” (Lc 15,31).
Con queste parole il Padre misericordioso della parabola, invita il figlio maggiore alla conversione e riconoscere che quella è la sua casa.
Anch’egli, come il figlio più giovane che se ne va da casa, il quale ha sperimentato l’umiliazione della schiavitù (Lc 15,15-16), deve percorrere la strada del ritorno: da schiavo a figlio.

Le parole usate dal figlio maggiore per giustificare la sua mancata condivisione della festa, sono le stesse del servo: “Ecco io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando” (Lc 15,29). Egli disconosce l’essere fratello con queste pesanti parole “Ma ora che è tornato questo tuo figlio” (v. 30) e, disconoscendo il fratello, uccide anche la relazione paterna, come il figlio minore che chiede in anticipo l’eredità che gli spetta: “Padre dammi la parte di patrimonio che mi spetta” (v. 12).

È difficile percorrere la strada interiore che conduce all’umiltà senza passare dalla via dell’umiliazione.

Nemmeno di fronte all’umiliazione del Padre: “Uscì a supplicarlo” (v. 28), il figlio maggiore abbassa il suo orgoglio. Ricco del suo orgoglio, gonfiato dall’invidia, non riesce a far festa per la vita recuperata del fratello.
Non si era mai accorto, di disporre delle stesse ricchezze “di suo padre”, perché non si era mai sentito “figlio”.
E non aveva compreso che la vera ricchezza è la relazione filiale che sovrabbonda della relazione con il fratello. Chissà, forse era invidioso non solo della festa per il ritorno del fratello ma anche della libertà che costui aveva esercitato nello scegliere di partire e della liberta di parlare a viso aperto con il padre.
Egli aveva sempre obbedito ad ogni comando, aveva sempre fatto tutto secondo le regole, ma da schiavo di se stesso. Si erge a giudice a partire dalla sua obbedienza senza amore, come il fariseo che si auto-elogia di fronte a Dio, giudicando il pubblicano (cfr. Lc 18,9-14). L’atteggiamento di questo figlio maggiore non sembra dissimile da tanti “credenti obbedienti” alla dottrina, che si ergono a giudici di Papa Francesco perché “accoglie i peccatori e mangia con loro” (v. 2).

A cura di don Andrea Rossi

Tratto da La Voce del 25/03/2022