Nel pomeriggio di venerdì 25 luglio, presso la Cattedrale di Orvieto, è stata celebrata la Festa di San Giacomo Apostolo, patrono dei Pellegrini. Dopo l’accoglienza dei ragazzi diretti a Roma al Giubileo dei Giovani (provenienti da Spagna, Portogallo, Slovenia e Polonia) e ospitati in Diocesi, ha avuto luogo l’ostensione straordinaria del Sacro Corporale e la celebrazione della solenne Concelebrazione Eucaristica presieduta dal vescovo Gualtiero Sigismondi. Riportiamo di seguito il testo dell’omelia rivolta ai partecipanti.
Celebriamo la festa dell’apostolo Giacomo, il Maggiore, primo, tra i discepoli, a bere il calice del martirio (cf. At 12,1-2). Per il suo carattere impetuoso è chiamato “figlio del tuono”. Con Giovanni, suo fratello, e Simon Pietro vive alcuni dei momenti più forti della vita di Gesù. Sua madre, Salome, sapendo che i suoi figli erano prediletti dal Maestro, si prostra davanti a Lui e lo prega di avere un occhio di riguardo per loro (cf. Mt 20,20-28). Questa gaffe manifesta quanto sia vero quello che Paolo confessa ai Corinzi: “Noi abbiamo un tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi” (2Cor 4,7).
Carissimi giovani, nella festività di San Giacomo – patrono dei pellegrini, specialmente per il Cammino di Santiago di Compostela – siete arrivati a Orvieto, come “pellegrini di speranza”. Siete partiti dai vostri paesi portando l’essenziale. Dopo l’agilità dello scatto iniziale, a poco a poco avete scalato le marce, non tanto per il peso della stanchezza del viaggio, quanto per conservare le energie necessarie per raggiungere Roma, “imporporata dal sangue dei Principi degli Apostoli”.
Se all’inizio del pellegrinaggio il canto ha accompagnato il cammino, a poco a poco la voce del silenzio ha coperto il chiasso dei pensieri che, anche quando si sta zitti, stenta ad abbassare il volume. Sorella acqua, “multo utile et humile et pretiosa et casta”, come la dipinge San Francesco nel Cantico di frate Sole, ha scortato i vostri passi e ha placato la vostra sete, “icona” di quella “profonda nostalgia di Dio” che inquieta il cuore umano.
Il pellegrinaggio insegna il valore del camminare insieme, “in una società segnata dalla solitudine, in cui – osserva Leone XIV – l’individualismo esasperato ha spostato il baricentro dal noi all’io”. In un contesto sociale sempre più digitale in cui le tecnologie, “pur avvicinando persone lontane, spesso allontanano chi sta vicino”, il pellegrinaggio valorizza la gioia dello stare insieme. Contro la tentazione di fuggire in mondi virtuali, esso aiuta a mantenere un sano contatto con la natura e con la vita concreta, “luogo in cui – avverte il Santo Padre – si esercita l’amore” (cf. 1Gv 3,18). Il pellegrinaggio, in una società competitiva, “educa anche a perdere, a confrontarsi con una delle verità più profonde della condizione umana: la fragilità, il limite, l’imperfezione”. È dall’esperienza di questa debolezza, “nella sua vulnerabilità e nella sua sete d’infinito”, che ci si apre alla speranza e si trova il coraggio di rialzarsi, di diventare “pellegrini di speranza”.
“Da San Giacomo – diceva Benedetto XVI – possiamo imparare molte cose: la prontezza ad accogliere la chiamata del Signore, anche quando ci chiede di lasciare le nostre sicurezze, l’entusiasmo nel seguirlo sulle strade che Egli ci indica al di là di ogni nostra illusoria presunzione, la disponibilità a testimoniarlo con coraggio, se necessario, fino al sacrificio della vita. Così Giacomo il Maggiore si pone davanti a noi come esempio eloquente di generosa adesione a Cristo”.
+ Gualtiero Sigismondi








