Festa di san Fortunato, Patrono della Diocesi: celebrata la solenne Messa a Todi, presieduta dal Card. Antonelli

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Questo pomeriggio, a Todi, alle ore 18:00, il Card. Ennio Antonelli ha presieduto la solenne Messa in occasione della festa di san Fortunato, Patrono della Diocesi e del Comune di Todi, nella chiesa dedicata al Santo. Hanno concelebrato il Vescovo Gualtiero Sigismondi e il clero diocesano.
Riportiamo, di seguito, il saluto di Mons. Gualtiero al Cardinale e il testo integrale dell’omelia. . 

Indirizzo di saluto a S. E. il Sig. card. Ennio Antonelli – San Fortunato, 14 ottobre 2024

Nel salutare il popolo santo di Dio, tutte le autorità civili e militari e, in particolare, il presbiterio, il mio sguardo si volge a lei, Eminenza, che senza indugio ha accolto l’invito a presiedere questa Eucaristia nella solennità di san Fortunato, Patrono della Diocesi di Orvieto-Todi, in cui lei ha ricevuto il dono della fede e quello del sacerdozio ministeriale. Prima dell’ordinazione episcopale anche lei ha guardato la Chiesa con l’occhio del figlio che riposa, più o meno tranquillo e sereno, nelle braccia di sua madre. Poi, da vescovo, ha scoperto nella Chiesa la Sposa: i sentimenti sono profondamente diversi! Quando si guarda il volto della propria madre le rughe si notano, ma non si osservano, poiché ne modellano la bellezza; quando invece si ammira il volto della sposa – lei lo sa bene – le rughe si notano, si osservano e, addirittura, si contano!

Questa Chiesa particolare che lei ama con devozione filiale, oggi l’accoglie di nuovo con quel sano orgoglio con cui una madre fa sedere a mensa i propri figli, quando dopo aver lasciato la casa paterna vengono a farle visita. Eminenza, per intercessione di san Fortunato, il Signore le conceda serenità e salute, moltiplichi i suoi anni e renda fecondo il suo ministero; per un vescovo il congedo pastorale non dispensa dalla sollecitudine del discernimento e dalla preghiera di intercessione. Confidando nel suo quotidiano ricordo all’altare, a nome del presbiterio le faccio dono della prima copia, fresca di stampa, del Proprio dei Santi e Beati di questa terra, che san Fortunato ha arato con carità apostolica, spargendo a piene mani il seme della parola di Dio.

Mons. Gualtiero Sigismondi


Testo integrale dell’omelia 
  1. Nel Vangelo che abbiamo ascoltato (Mt 7, 21.24-25) Gesù ci ha detto: “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia”.

Uno degli uomini saggi che hanno costruito la casa sulla roccia è il vescovo san Fortunato. Ha costruito sulla roccia, sia la casa della sua personale vita cristiana, sia la casa della comunità ecclesiale di Todi. Tra poco, nel Prefazio, rivolgeremo a Dio questa preghiera di lode e di ringraziamento: “In tempi di dura prova hai suscitato san Fortunato difensore del popolo tuderte, protettore e sostegno dei deboli, pastore dal cuore libero e ardente”.
San Fortunato è vissuto nel VI secolo, in un tempo di sconvolgimenti e grandi tribolazioni: invasioni dei barbari, crollo dell’impero romano, devastazioni, massacri, calamità naturali, carestie, epidemie, spopolamento delle città. Il suo fu un tempo di così opprimente paura e angoscia, da indurre allora molte persone a ritenere prossima la fine del mondo. Come uomo di Dio, pieno di carità verso i sofferenti e operatore di miracoli, san Fortunato viene raccontato dal papa san Gregorio Magno nel primo libro dei Dialoghi, scritto nell’anno 593, a breve distanza dagli avvenimenti narrati. Il papa lo inserisce nella serie dei numerosi santi, che Dio suscitò in Italia, in quel secolo sventurato, perché fossero segni trasparenti e credibili della presenza di Cristo Salvatore nella Chiesa e dessero conforto e fiducia alla popolazione.
La prospettiva dei segni, prescelta dal grande Papa per raccontare i santi, è teologicamente assai rilevante ed è molto attuale anche per il nostro tempo. Nei santi infatti, in quanto segni splendenti dell’amore e della presenza di Cristo nella storia, si realizza pienamente la missione della Chiesa nel mondo, la missione di essere segno della salvezza offerta da Dio a tutti gli uomini, “sacramento universale della salvezza”, come insegna il Concilio Vaticano II (Lumen Gentium, 48).
A questa missione sono chiamati a partecipare tutti i battezzati e di fatto vi partecipano più o meno secondo la loro corrispondenza alla grazia di Dio. Nella seconda lettura (1Pt 2, 4-9) abbiamo ascoltato una solenne dichiarazione sull’identità cristiana: “Voi … siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato, perché proclami le opere meravigliose di lui”. In altre parole: Voi cristiani siete gente scelta da Dio, partecipazione al sacerdozio di Cristo, nazione consacrata, popolo che Dio ha fatto suo in modo speciale, perché annunci e manifesti le meraviglie della salvezza attuata in Cristo.
I cristiani, ripete spesso papa Francesco, sono discepoli-missionari, uniti a Cristo per cooperare con lui alla salvezza di tutti gli uomini. “Ogni cristiano – egli scrive – è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù; non diciamo che siamo discepoli e missionari, ma che siamo sempre discepoli-missionari” (Evangelii Gaudium, 120), cioè inseparabilmente, con tutta la vita, con la preghiera, con la parola, con le opere.
Prima di lui un altro papa, San Paolo VI, aveva scritto: “Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare” (Evangelli Nuntianti, 14). La Chiesa evangelizza, trasmettendo la memoria, la presenza e l’amore di Cristo, con l’annuncio del vangelo, la celebrazione dell’Eucarestia e dei sacramenti, la testimonianza vissuta della carità, in modo da preparare e orientare verso la salvezza eterna tutti gli uomini, cristiani e non cristiani.

  1. Anche il nostro tempo, come quello di san Fortunato, è tempo di grande cambiamento, inquietudine e preoccupazione, oltre che di successi e attese euforiche. È in atto un processo di mondializzazione: innovazioni tecnologiche, crescita e competizione economica, squilibri degli ecosistemi, mobilità delle persone, migrazioni di massa, contatti e interferenze tra le culture, società conflittuali, tensioni geopolitiche. In Europa è tramontata la secolare stagione della cristianità, in cui l’appartenenza alla Chiesa coincideva con l’appartenenza alla società civile. Oggi la cultura dominante emargina il Cristianesimo. Per molte persone la fede cristiana non ha più attrattiva e rilevanza. Aumentano i non credenti; diminuisce la pratica religiosa; si disgregano le famiglie; calano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata; si contrae la presenza delle strutture ecclesiali sul territorio. Stiamo andando verso una Chiesa di minoranza. Da questa situazione può derivare per i cristiani una insidiosa tentazione di sfiducia e scoraggiamento.

A riguardo occorre ricordare che Gesù ha promesso l’indefettibilità della Chiesa: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa” (Mt 16, 18); e le ha affidato una missione universale, verso tutti i popoli e in tutti i tempi: “Fate discepoli tutti i popoli … Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 19-20). Però ha promesso anche ostilità e persecuzioni: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15, 20) e ha messo in guardia dalle illusioni del facile successo: “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (Lc 6, 26). Per l’evangelizzazione del mondo conta più la qualità dei cristiani e delle comunità ecclesiali che non la quantità numerica. Anche una Chiesa di minoranza può essere segno efficace della presenza di Cristo Salvatore nella storia umana. Anche quando si riduce a un piccolo gregge, la Chiesa può cooperare con Cristo, alla salvezza eterna di tutti gli uomini, dei cristiani e dei non cristiani, attraverso le vie misteriose della Grazia. Lo afferma autorevolmente il Concilio Vaticano II: “Il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l’universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto a essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra, è inviato a tutto il mondo” (Lumen Gentium, 9).

  1. La forma storica della Chiesa può cambiare secondo i tempi e secondo i luoghi. Sempre e dovunque però devono rimanere, oltre al ministero dei Pastori, quattro dimensioni essenziali: i sacramenti e l’Eucarestia, specialmente celebrata come festa comune ogni Domenica, l’ascolto personale e comunitario della Parola di Dio, la testimonianza vissuta della carità nelle relazioni interpersonali, specialmente nella vicinanza ai malati, ai poveri e agli emarginati, l’annuncio del Vangelo e l’insegnamento della dottrina cristiana. Queste quattro dimensioni essenziali della vita ecclesiale, corrispondono sostanzialmente alla riforma delle unità pastorali, che si sta attuando nella diocesi di Orvieto-Todi, con le quattro diaconie e la valorizzazione dei cristiani laici come figure ministeriali.

In questo contesto, seguendo un’indicazione di san Giovanni Paolo II (Ecclesia in America, 41), ripresa anche da papa Francesco (Evangelii Gaudium, 28; 29), vorrei sottolineare l’importanza delle piccole comunità, per rendere più incisiva l’evangelizzazione in una società individualista e secolarizzata. Nelle piccole comunità si fa esperienza concreta di fraternità e amicizia nelle relazioni tra le persone, di ascolto condiviso della Parola di Dio per metterla in pratica, di discernimento comunitario, di formazione spirituale, di sostegno alla vita familiare, di integrazione nel vicinato, di prossimità e servizio ai poveri e ai sofferenti, di attenzione ai problemi della società.
A proposito mi piace ricordare l’esperienza che ho fatto a Bamenda in Camerun, partecipando ad alcuni incontri settimanali di comunità in case private, o di lunedì o di martedì in vista della messa domenicale successiva. Una dinamica semplicissima, guidata da due responsabili, formati e autorizzati dal parroco; una dinamica partecipata attivamente da tutti, dagli adulti e dai bambini. Canto iniziale; lettura del Vangelo della domenica successiva; un giro di interventi liberi per dire la prima impressione; un secondo giro per dire liberamente il proposito personale per vivere in quella settimana il Vangelo ascoltato; un terzo giro per scegliere l’impegno comunitario della settimana (per esempio, fare visita a una famiglia con malati; prendere contatto amichevole con i non cristiani del vicinato); un quarto giro per le preghiere spontanee; la conclusione con la recita del Padre Nostro e il canto finale.
Un’altra linea pastorale che vorrei sottolineare è la promozione dei ministeri battesimali, non ordinati. Tutti i battezzati hanno la vocazione alla santità e alla missione, con doni e compiti diversi, da rendere fruttuosi nella vita ordinaria della famiglia, del lavoro, della società civile, della comunità cristiana. Oggi però è opportuno istituire anche una varietà di incarichi ecclesiali pubblici, da affidare a donne e uomini, adeguatamente preparati, approvati dal vescovo. Possono essere conferiti ufficialmente con rito di benedizione, per svolgere compiti specifici in diversi settori: servizio liturgico, attività caritativa, annuncio e catechesi, amministrazione, organizzazione, animazione culturale. Chi è chiamato a un ministero ecclesiale dovrebbe sentirsi onorato di collaborare con Cristo per il bene dei fratelli e impegnarsi con entusiasmo. A Roma, in preparazione al Grande Giubileo dell’anno 2000, si svolse la missione delle famiglie alle famiglie, con visite casa per casa. Il frutto più evidente, costatato a conclusione dell’iniziativa, fu che la missione aveva giovato a quelli che erano andati in missione, più che ai destinatari. “La fede si rafforza donandola”, aveva scritto san Giovanni Paolo II (Redemptoris Missio, 2).

  1. Nel lavoro ecclesiale, come nella vita ordinaria personale dei cristiani, ciò che più conta non sono le cose che si fanno e neppure i risultati tangibili, quanto il modo di operare, lo stile con cui si agisce: umiltà, carità, disinteresse, pazienza, fiducia, pace e gioia, anche nelle difficoltà e nelle tribolazioni. “Amate gli altri – diceva Madre Teresa di Calcutta – in modo che si sentano amati da Cristo attraverso di voi”. Gli uomini di oggi e di sempre hanno bisogno di incontrare Cristo, l’unico Salvatore. Questo incontro avviene nella misura in cui i cristiani saranno, come diremo tra poco nella preghiera dei fedeli, segni luminosi della sua presenza. San Fortunato fu segno trasparente e credibile e desidera che anche noi lo diventiamo sempre più.

Card. Ennio Antonelli