Non essendosi potuta celebrare il Mercoledì Santo a causa dell’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, Mons. Benedetto Tuzia ha presieduto sabato 30 maggio alle ore 18 nella Cattedrale di Orvieto la S. Messa Crismale, nella quale sono stati consacrati gli oli santi e i sacerdoti hanno rinnovato le promesse sacerdotali, confermando il loro impegno di guida per la propria comunità, di amico per il fratello in difficoltà, di padre per i piccoli che si avvicinano ai sacramenti.
L’omelia dell’Amministratore Apostolico:
Abbiamo vissuto e continuiamo a vivere una situazione di emergenza che non ci ha consentito di celebrare mercoledì santo la Messa Crismale.
Oggi finalmente viviamo la grazia di trovarci anche fisicamente uniti confermando attraverso le nostre promesse sacerdotali la professione di amore e il desiderio di conformarci a Cristo sacerdote.
Mai come in questi mesi abbiamo avuto e continuiamo ad avere la possibilità di stare in mezzo al gregge, di farci carico dei dolori e delle fatiche di un popolo sofferente e di poterlo manifestare, oggi con le parole, e fin ad ora con i fatti.
Penso alle tante Messe che per numerosi giorni abbiamo celebrato senza il nostro popolo in chiesa, ma con il nostro popolo nel cuore.
In un contesto di assenza fisica, il popolo di Dio ha sentito l’odore dei nostri preti e il profumo delle pecore che stiamo portando sulle spalle, quello con il quale la nostra promessa sacerdotale tornerà tra poco a risuonare non come parola vuota, ma come testimonianza concreta della nostra identità.
Oggi il nostro sì sarà chiaro e forte, come non lo è stato da tempo. Talmente forte, che sono certo, farà germogliare in modi e tempi che solo Dio conosce, future vocazioni al servizio ministeriale.
Cari fratelli nel sacerdozio, oggi facciamo memoria del giorno felice della nostra ordinazione sacerdotale. Il Signore ci ha unto in Cristo con oleum laetitiae, con olio di gioia e questa unzione ci invita a ricevere e a farci carico di questo grande dono: la gioia.
La gioia del sacerdote è un bene prezioso non solo per lui ma per tutto il popolo di Dio: quel popolo in mezzo al quale è chiamato per essere unto e al quale è inviato per ungere.
Unti con olio di gioia per ungere con olio di gioia.
La gioia sacerdotale ha la sua fonte nell’Amore del Padre e il Signore desidera che la gioia di questo Amore sia in noi e sia piena.
Individuo tre caratteristiche significative della nostra gioia sacerdotale: è una gioia che ci unge (non che ci rende untuosi, presuntuosi o sontuosi); è poi una gioia incorruttibile, ed è una gioia missionaria, che si irradia a tutti e attira tutti, cominciando alla rovescia: dai più lontani.
Una gioia che ci unge. Vale a dire: è penetrata nell’intimo del nostro cuore, lo ha configurato e fortificato sacramentalmente. Unti fino alle ossa… e la nostra gioia, che sgorga da dentro è l’eco di questa unzione.
Una gioia incorruttibile, che il Signore ha promesso e che nessuno potrà togliercela. Può essere addormentata o soffocata dal peccato o dalle preoccupazioni della vita pastorale, ma nel profondo, rimane intatta come la brace di un ceppo bruciato, sotto le ceneri, e sempre può essere rinnovata. La raccomandazione di Paolo a Timoteo rimane sempre attuale: «Ti ricordo di ravvivare il fuoco del dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani».
Infine una gioia custodita. Una gioia in intima relazione con il popolo santo di Dio in mezzo al quale il pastore vive e questa è una gioia custodita dallo stesso popolo. Anche nei momenti di tristezza, di solitudine, in cui tutto sembra oscurarsi, e che a volte sperimentiamo nella vita sacerdotale, ebbene in questi momenti, il popolo di Dio è capace di custodire la gioia, è capace di proteggerti, di abbracciarti, di aiutarti a aprire il cuore e ritrovare una gioia rinnovata.
Gioia “custodita” dal popolo, e custodita anche da tre sorelle che la circondano, la proteggono, la difendono: sorella povertà, sorella fedeltà, sorella obbedienza. Così papa Francesco ha definito le promesse sacerdotali che nel cuore della nostra ordinazione abbiamo deposto nelle mani del Vescovo: le sorelle della nostra gioia.
E partendo da questo suggestivo legame tra promesse sacerdotali e gioia vorrei spingere la nostra meditazione verso lo stretto rapporto che, anche tramite la gioia unisce le stesse promesse alla santità.
In questo anno, stimolati dall’esortazione Gaudete et Exultate avevamo programmato un approfondimento del nostro cammino di santità.
Come si santifica un prete? C’è uno specifico della santità presbiterale? La vocazione alla santità è una e universale, ma ognuno deve rispondere in modo unico e irripetibile. Il presbitero risponde da presbitero. Ma come deve rispondere? Come Cristo. «Ecco io vengo per fare la tua volontà: mio Dio questo io desidero». Una perfetta sintonia con la volontà del Padre. Vivere il dono della propria volontà, alla volontà del Padre. «Come il Padre ha mandato me, anche Io mando voi».
Tutta la forza delle promesse sacerdotali è in quel “come”, da cui scaturisce la nostra identità.
Le promesse che torneremo a pronunciare tra poco, hanno il fine di portarci a vivere come Cristo. È la logica di amore “del mandato”, «Come il Padre ha mandato me…». “Mandato” è una parola che ci precede, ci raggiunge, ci permea, ci finalizza.
Il motivo della nostra gioia è proprio quel come, “come Cristo”. In quel come c’è tutta la nostra vera vita, la nostra pienezza, la nostra santità. In quel come ci sono anche le fatiche, le avversità, i fallimenti. Sono le condizioni che Cristo ha vissuto. Sono il limite che lui ha assunto.
E allora non contraddicono la gioia, perché la viviamo come Cristo, come lui.
Infine consentitemi un’ultima riflessione. Nel momento in cui giunge al termine il mio servizio episcopale quale Vescovo di Orvieto-Todi, rivolgo a tutti i fratelli e sorelle della mia Chiesa un saluto di riconoscenza e affetto… Sono grato al Signore per questi intensi e impegnativi anni. Il 30 giungo del 2012 non siete stati voi che avete scelto me come vostro Vescovo, né io ho scelto voi. Ci siamo reciprocamente accolti come dono di Dio gli uni per l’altro.
Ricordo la prima volta, un pomeriggio esattamente di otto anni or sono, in cui mi sono seduto in questa cattedra. Guardando successivamente le foto, mi sono soffermato su una che mi ha particolarmente colpito. In un preciso istante la luce del sole pomeridiano si attardava come un cerchio luminoso su quella croce, su quel crocifisso. L’ho letto come una consegna. Una Chiesa crocifissa e luminosa. Era il dono per me. E quello è il mistero che celebriamo ogni giorno. Una vita consegnata, offerta, che risplende nella bellezza e nella luminosità del dono della Pasqua. Questo è il nostro mistero.
Cari fratelli nel sacerdozio, in questo momento di grazia desidero salutarvi ufficialmente ed esprimere la mia riconoscenza per quanto mi è stato donato in questi otto anni del mio servizio sacerdotale ed episcopale tra voi.
Ho molto da farmi perdonare, lo so bene. Mi auguro, anzi ne sono certo, che sarete generosi nel concedermelo. Sono stati momenti di crescita e di arricchimento finale nella mia esperienza umana e spirituale. Resto, anche se nella particolare figura di emerito, parte di questa Chiesa di Orvieto-Todi in un servizio che d’ora in poi si esprimerà in forma di intercessione orante.
Il momento difficile che il mondo sta affrontando, ha coinvolto ogni realtà, anche la nostra vita di fede. Vorrei far giungere la vicinanza di affetto e di preghiera in particolare per quanti, nella nostra comunità diocesana hanno sperimentato situazioni di prova… Invito tutti a restare uniti in una cordata di preghiera, che si fa solidarietà e comunione.
Se la Chiesa è un “ospedale da campo”, noi ci sentiamo un po’ “infermieri” di comunità, impegnati a “curare” la crisi di isolamento dei giovani, delle famiglie, degli anziani. Come uomini e donne di fede accogliamo la sfida di progettare modalità di vita, di lavoro, di relazioni che siano rispettose.
Ritengo doveroso, facendo mie le parole di papa Francesco, riconoscere ed esprimere un senso di gratitudine verso i tanti tra voi che, in maniera costante e integra, offrono tutto ciò che sono e che hanno per il bene della comunità. Vi ringrazio per il vostro esempio, in particolare espresso nelle recenti situazioni di sofferenza; e questi sentimenti di riconoscenza si fanno preghiera quotidiana per voi e per tutta la nostra Chiesa.
Questa santa celebrazione doni nuovo slancio al nostro cammino di fedeltà a Cristo: sia per noi un nuovo “sì” a Colui che ci ha chiamati, come se fosse il primo giorno.
Lo imploriamo dalla Vergine Maria e dai Santi protettori della nostra Chiesa.
Un pensiero a don Gualtiero: confesso di averlo fin dall’inizio stimato e ammirato. Vi invito ad accoglierlo e ad amarlo. È un bel dono che insperatamente il Signore ha fatto a questa nostra Chiesa. Il 28 giugno vivremo con gratitudine e gioia l’accoglienza al nuovo Pastore della nostra Diocesi. Pregheremo per lui perché sia nella nostra Chiesa particolare manifestazione della presenza del Signore e del suo Amore misericordioso.
Al termine della celebrazione, don Stefano Puri, Vicario generale, ha salutato e ringraziato a nome di tutti mons. Benedetto.
Ecco le sue parole:
Eccellenza, al termine di questa celebrazione che esprime la natura tutta ministeriale della Chiesa, non possiamo fare a meno di una parola da parte nostra.
In questi otto anni in cui ha svolto il suo ministero in mezzo noi, lei più volte ha spezzato per noi la Parola indirizzando e orientando il cammino della nostra Chiesa particolare in questo frangente della storia in cui si percepisce, come più volte ci ha ricordato, riportando il pensiero di Papa Francesco, che non viviamo ‘in un’epoca di cambiamento, ma viviamo in un cambiamento d’epoca’. Questa verità esige da parte nostra, pastori e popolo, un atto insieme di coraggio e di umiltà che ci permetta un confronto franco e sereno con un mondo che sembra, citando Paolo VI, ‘sempre più estraneo al tesoro vitale della nostra Verità’. Difronte a questo compito di testimonianza mi ha sempre colpito quanto afferma san Leone Magno: ‘Noi ci troviamo deboli e insufficienti nel compiere il servizio del nostro ufficio, perché se bramiamo fare qualcosa con dedizione e diligenza ne siamo ritardati dalla fragilità della nostra stessa condizione…’.
Credo che ognuno di noi possa sentire vere queste affermazioni: è per questo che non vogliamo oggi tessere elogi (che spesso vengono dopo i necrologi), ma vogliamo solo dirle un ‘Grazie’ che non tiene conto tanto di un bilancio da fare, quanto di un sentimento di riconoscenza da esprimere per come in questi otto anni, non sempre facili e sereni per lei come per noi, lei, con semplicità, è stato presente. Come ci ha ricordato nella sua recente visita ad Orvieto il nuovo vescovo mons. Sigismondi, riportando il pensiero di don Primo Mazzolari: ‘la Chiesa non ha confini da difendere o territori da conquistare, ma una maternità da estendere’.
La ringraziamo perché come ha potuto e saputo, con i limiti e i pregi che ognuno di noi porta con sé, ci ha recato presente questa ‘maternità’ che qualche volta impone di dire qualche ‘no’, ma sempre, mitigandolo con la dolcezza dell’amore.
Non starò a fare l’elenco di ciò che, in questi anni di ministero, lei ha compiuto: solo due episodi posti uno all’inizio e l’altro verso la fine del suo episcopato in mezzo a noi. Il Giubileo eucaristico straordinario per i 750 anni del Miracolo di Bolsena e della bolla Transiturus e, ultimamente, la Visita pastorale che lo ha portato in ogni parrocchia, anche la più piccola, della diocesi. Due momenti diversi, nei quali però abbiamo potuto insieme riscoprire la vocazione tutta eucaristica della nostra Chiesa particolare e soprattutto che, come da lei ricordato, ‘è finito il tempo del Cristianesimo dell’abitudine, è arrivato il tempo del Cristianesimo dell’innamoramento e del contagio” che permetterà alle nostre Comunità, anche le più piccole, di far sopravvivere la Parola del Vangelo. Questo è l’unico ‘contagio’, benefico, di cui non dobbiamo avere paura.
Sappiamo che anche da lontano continuerà ad esserci vicino, soprattutto nella preghiera, offrendo anche per noi ogni giorno il sacrificio della santa messa: è per questo che le facciamo dono della croce astile (usata anche in questa celebrazione) che ha peregrinato con lei per le nostre parrocchie durante la Visita pastorale. Questo dono, speriamo, possa ricordarle l’unico merito che un pastore può vantare e che esprimo ancora con le parole di Paolo VI, che appena dopo la sua elezione a Papa, annotava: ‘forse il Signore mi chiama a questo ministero non già perché io salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualcosa per essa e sia chiaro che Egli, non altri, la guida e la salva’.
Grazie!