VANGELO
Lc 15,1-32
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”.
Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
COMMENTO
L’intera liturgia della parola fa emergere la sovrabbondanza della misericordia sul peccato, che libera dalla schiavitù e recupera le relazioni di figliolanza, riscoprendo quelle di fratellanza
Le parabole della misericordia, narrate questa domenica al capitolo 15 dall’evangelista Luca, sono collocate al centro del lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme, narrato tra i capitoli 9,51 – 19,47.
Una evocazione della misericordia quale centro del cuore di Dio che palpita per i suoi figli, mai considerati persi, sempre da raggiungere là dove sono caduti, un Dio che è Padre di misericordia sempre fiducioso del loro ritorno, per abbracciarli perché si riconoscano degni del loro essere figli.
“Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,20).
A partire da questi verbi che esprimono l’essere e l’agire di Dio, si può allargare lo sguardo ad un intero capitolo, che tenta di spiegare il cuore stesso di Dio, attraverso tre parabole, introdotte da una chiara indicazione sul motivo del racconto: “I farisei e gli scribi mormoravano dicendo ‘Costui accoglie i peccatori e mangia con loro’” (Lc 15,1-3). È significativo che gli esperti del tempo “mormorano”, mentre “tutti i pubblicani e i peccatori ascoltano” (cf. v. 1).
Un intero capitolo dedicato alla tenerezza di Padre come identità ontologica della realtà di Dio, che fa ed è misericordia.
Ma qual è il suo significato? “Misericordia in ebraico si dice rahamìn, legato al termine utero, più generalmente viscere. Esprime la qualità della compassione, nella natura della relazione tra padre e figlio, tra madre e figlio.
Indica la protezione materna e quella paterna, il rapporto di amore incondizionato tra genitore e figlio, tra Dio e l’umanità” (in www.cittanuova.it/la- misericordia-nellebraismo).
L’intera liturgia della parola di questa domenica fa emergere la sovrabbondanza della misericordia sul peccato, che libera dalla schiavitù e recupera le relazioni di figliolanza, riscoprendo quelle di fratellanza.
Nella prima lettura, gli ebrei, schiavi in una terra straniera, sono liberati da Dio che li fa uscire da quel luogo; nel Vangelo due figli nella casa del padre vivono la loro dimora come prigione e nemici tra loro; nella seconda lettura Paolo attesta che anche lui è un uomo nuovo grazie alla misericordia che “gli è stata usata” (cf. 1Tm 1,13), ribadendo che l’ha ottenuta “perché Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori” (cf v. 15-16); il salmo 50, attribuito a Davide è una vera confessione del peccato commesso e una invocazione del perdono, possibile solo a motivo dell’azione divina.
Ma non basta “uscire” per essere liberi, non è una questione di luogo.
Infatti gli stessi ebrei liberati, in attesa di Mosè, rimpiangono la schiavitù d’Egitto, anzi la eleggono a loro nuova divinità: costruiscono il vitello d’oro affinché li riconduca là dove si mangiava con sicurezza programmata (cf Es 32,8).
Ripudiano quindi il percorso di liberazione nel deserto, perché fidarsi di Dio è consegnare la vita a Lui, unica e vera libertà, garanzia anche del pane quotidiano, di ogni giorno, garantito solo dalla fede in Dio.
E i figli nella casa del Padre, descritti nella pagina del Vangelo, sperimentano la schiavitù di una mancata relazione filiale che fa disconoscere anche quella fraterna e trasforma la casa in una prigione.
Entrambi sono schiavi di sé stessi, anche se le risposte sono diverse.
Il più giovane, che cerca la libertà dalla casa-prigione, si illude che il problema sono il luogo e il padre, tanto che ne chiede la morte, chiedendo l’eredità (cf. Lc 15,12-13). Non trova la libertà, anzi si ritrova schiavo in una condizione peggiore dei salariati in casa di suo padre (cf. v. 17).
Il fratello maggiore, nel definire la relazione con suo fratello dopo il ritorno, esprime la sua condizione percepita.
L’uso dei verbi lo connota non come figlio ma come schiavo: “Ecco io ti servo”, “non ho mai disobbedito a un tuo comando” (cf. v. 29); “È tornato questo tuo figlio” (cf. v. 30).
Il testo si conclude con un velo di tristezza, nonostante le tante citazioni di gioia di tutto il capitolo.
Il figlio maggiore non accetta l’abbraccio del padre (cf 15,20) e non si lascia portare sulle spalle come la pecora smarrita (cf v. 5).
E il Padre continua a rimanere sull’uscio scrutando l’orizzonte, in attesa (cf v. 20).
Lui è fedele alla libertà regalata.
A cura di don Andrea Rossi
(tratto da “La Voce” del 09/09/2022)