Centenario della nascita del Servo di Dio P. Gianfranco Maria Chiti – Omelia

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,12-13). La metafora della “vite e dei tralci” custodisce questa perla preziosa, con la quale il Signore illumina i suoi discepoli, dicendo loro che l’amore più grande consiste nel dare la vita per i propri amici. Sarebbe lecito pensare che vi possa essere un amore ancora più grande, quello per i nemici, che il Signore stesso chiede di tenere stretti al cuore, benedicendoli. Sarebbe giusto ritenere che l’amore più grande sia quello riservato a coloro che ci schiaffeggiano, a cui è bene porgere l’altra guancia, e tuttavia Gesù assicura che l’amore più grande è quello per gli amici. In effetti, nel lessico dell’amore non c’è spazio per il termine nemico o per il termine schiavo, ma soltanto per le parole amico e fratello. Quando la linfa del Vangelo irrora il cuore non si hanno più nemici da cui difendersi o schiavi da cui farsi servire, ma soltanto amici da custodire e fratelli da incontrare.

“Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 15,17). Queste parole sigillano il brano giovanneo appena proclamato. Sono parole che, nel centenario della nascita del Servo di Dio Gianfranco Maria Chiti, possono essere commentate richiamando alcune sue lettere, scritte al tempo della vita militare, come quella indirizzata l’11 dicembre 1945 a p. Edgardo Fei, missionario vincenziano. “C’è il cappellano padre Chiappera, ex cappellano della formazione partigiani, che mi era alquanto antipatico. Volevo correggere tale mio sentimento che andava contro al sentimento cristiano d’amare il prossimo come se stessi. Ho tanto pregato il Signore perché tramutasse l’antipatia in simpatia. Ieri ho ottenuto la grazia, che in un lungo colloquio con lui, mi sono convinto che è una gran buona persona ed ora sento addirittura vero affetto per lui”. Sono parole, queste, che Gianfranco Chiti verga con la sua mano intirizzita dal freddo dal Campo di concentramento sito in Laterina (Ar) ove è internato. Qualche giorno dopo, il 17 dicembre, confida a p. Edgardo: “Penso con commozione a te, mio caro amico, che in mezzo a molte occupazioni di Ministero, trovi ancora il tempo da dedicarti spesso a me. Quanta riconoscenza ti debbo per il bene che mi fai assistendomi nell’ardue giornate che sto percorrendo!”.

“Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9): questo comando Gianfranco Maria Chiti l’ha osservato alla lettera sia da militare, sia da frate cappuccino: “Questa vecchia pelle – sono sue parole – è ottima per rinchiudere il cuore di un frate”. Egli sapeva bene che “chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,8). Egli aveva ben chiaro che “in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi” (1Gv 4,10). Il verbo “stare” è quello con cui Dio coniuga il suo amore per gli uomini, i quali sono soliti preferire il verbo “fare”, che riduce l’amore ad una semplice coincidenza di interessi egoistici.

Avvicinandomi con profonda simpatia e sincera meraviglia alla vita di Gianfranco Maria Chiti, iniziata da fante e terminata da frate, a poco a poco ho maturato questa consapevolezza, che oso tradurre con le stesse parole con le quali Pietro, davanti alla casa di Cornelio, manifesta il proprio stupore nel vedere che lo Spirito santo, il quale “conosce i cuori”, non è allergico alle nazioni, non è refrattario ai pagani, cioè non fa discriminazioni tra giudei e greci: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga” (At 10,34-35).

Con il suo spirito, “ricco d’eroica fermezza cristiana e patriottica”, egli è passato dalla caserma al convento, dalla tuta mimetica al saio, dal cinturone al cordone, dal basco al cappuccio, dagli anfibi ai sandali, chiedendo al Signore: “Indica mihi viam in qua ambulem”. Egli, “granatiere di Sardegna” e “terziario francescano”, trovando pace nella preghiera silenziosa è passato dal dare l’Attenti al saluto di Pace e Bene, dall’alzabandiera alle lodi mattutine, dal silenzio alla compieta, dal dare ordini all’obbedienza. In particolare, egli è passato dalle stellette sulla divisa alla stola sulle spalle, ricevuta nella Cattedrale di Rieti il 12 dicembre 1982. A questa assemblea, raccolta nel centenario della sua nascita, egli, schivo com’era, non esiterebbe a dire quanto Pietro ha raccomandato a Cornelio il quale, andandogli incontro nei pressi della propria abitazione, si getta ai suoi piedi per rendergli omaggio: “Alzati: anche io sono un uomo!” (At 10,26).

+ Gualtiero Sigismondi

Orvieto - Basilica Cattedrale
08-05-2021