IV DOMENICA DI PASQUA – ANNO C

Noi, “umile gregge” in ascolto del Signore

8 maggio 2022

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VANGELO

Giovanni 10,27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».


COMMENTO

Gesù è il “buon pastore”. Ma chi fa parte del suo gregge? L’esclusione non è la punizione per un atto compiuto, ma l’impossibilità ad entrare nella “porta stretta dell’ovile delle pecore”, a motivo del debordare del nostro io

Il tempo di Pasqua prosegue verso la sua pienezza celebrativa della Pentecoste.
Terminati i racconti delle apparizioni, la quarta domenica ha una sua connotazione particolare: “la Domenica del Buon Pastore”.
Sono i riferimenti liturgici ad esplicitarne la motivazione. La Colletta chiama tutti noi “umile gregge”, in cammino là dove ci “ha preceduto Cristo, suo pastore. Ma il riferimento più evidente è scritto nel versetto allelujatico: “Io sono il buon pastore, dice il Signore; conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (cfr. Gv 10,14).
Infine il testo dell’Apocalisse, con una sovrapposizione d’immagine, fa dissolvere la figura dell’agnello in quella del pastore: “L’agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita” (Ap 7,17). Una modalità espressiva tipicamente giovannea, che ci ricorda la sovrapposizione di immagine tra padrone e servo nell’ultima cena, all’interno della quale Gesù lava i piedi agli apostoli (cfr. Gv 13,14-16).
L’immagine del pastore è tratteggiata in tutto il capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, proclamato nella liturgia della quarta domenica di Pasqua dei tre cicli dell’anno liturgico: A-B-C. Tutti questi riferimenti identificano questa domenica come la più op-portuna per la giornata mondiale delle vocazioni.
Il testo evangelico (Gv 10,27-30) è la risposta di Gesù alla domanda tendenziosa dei Giudei: “Se tu sei il Cristo dillo a noi apertamente” (Gv 10,24).
Gesù delineerà i “confini del suo gregge” distinguendo chi ascolta la sua voce (v. 27), da chi non vuole ascoltare. Senza l’ascolto ci si preclude l’opportunità di entrare.
L’esclusione non è la punizione per un atto compiuto, ma l’impossibilità ad entrare nella “porta stretta dell’ovile delle pecore”, a motivo del debordare del nostro io (Gv 10,1). L’ascolto ammorbidisce la rigidità identitaria del nostro io e plasma la nostra volontà sulla volontà di Colui che conosce il nostro cuore e vuole il nostro bene. Ma la potenza della parola trasformante si ferma davanti alla libertà di coscienza che non vuole cambiare nulla delle sue certezze.
La domanda posta dai Giudei non è per conoscere, ma per condannare. Gesù pone le sue opere, che sono quelle del Padre, come testimonianza (v. 25). L’evidenza non porta alla conoscenza, se gli occhi sono chiusi dalla malvagità, bensì al desiderio di distruggere chi ci mostra la verità: “I Giudei raccolsero delle pietre per lapidarlo” (v. 31).

Il brano odierno va letto all’interno di questo contesto di criticità e avversione, che identifica il gregge del Signore in coloro che lo ascoltano.
Dentro questa apertura, è possibile la conoscenza “cuore a cuore” e la sequela: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono” (v. 27). Questo legame è suggellato unilateralmente dal dono della vita del pastore: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi” (Lc 19,20) e si traduce nell’ordinario servizio della “lavanda dei piedi” (cfr Gv 13,5). Chi ascolta la sua parola si fa servo, stringendo un legame indissolubile con il Signore Gesù e per mezzo di Lui con il Padre (Gv 10, 29-30).
Il programma “ascoltare-servire” matura attraverso il vaglio continuo della macerazione del nostro io, per innestare in noi la sua volontà, vera pace e pienezza della nostra vita.
Una vita vissuta nell’obbedienza alla Sua volontà, oltre a sconfiggere i nemici interni, superbia e orgoglio, è chiamata a combattere i nemici esterni: “i potenti di turno”, a volte anche il potere religioso, quando non tende l’orecchio alla parola e non si fa servizio, è un ostacolo alla volontà del Signore.
Il testo della prima lettura è una conferma di quanto detto. Coloro che più di tutti potevano comprendere l’annuncio di salvezza di Paolo e Barnaba, “giudei e proseliti”, colti da gelosia per i successi dei due apostoli, a motivo della predicazione verso i pagani, “sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li cacciarono dal loro territorio” (At 13,50).

La fedeltà di Paolo e Barnaba, come la fedeltà di ogni testimone di Cristo, oltre a trovare la gioia anche nella persecuzione, fa esperienza della fedeltà del Signore alle promesse, come descritto nella seconda lettura: “Non avranno più fame ne avranno più sete, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi” (cfr. Ap 7,16-17).

A cura di don Andrea Rossi

Tratto da La Voce del 6 maggio 2022